Solo parole cancellate
dal silenzio religioso
di una prostituta
in viaggio con il suo scudiero
Il mare parla con voci sempre diverse.
Perché sa che lo ascoltano uomini che si sono persi: feriti inutili, innocenti che aspettano un’altra strage, persone che si fermano al margine della battigia con talmente tanto nulla dentro il cuore da trovare il tempo per aspettare la voce del mare.
Parlano anche i ciottoli sul margine di una spiaggia di sassi, rotolando gli uni accanto agli altri, squassati dalle onde.
Avremmo potuto essere felici
Dicono mentre si incontrano, un attimo prima di essere trascinati via ancora una volta per sempre.
Avremmo potuto essere felici se la crudele tempesta non ci avesse fatto incontrare solo per portarci via.
Li sente solo chi ha la stessa voce.
Li sento.
La cortigiana conosce le ombre e sa essere bella nell’ombra.
Lo sa perché sa come si vive nell’ombra.
L’ombra è un vino che separa la luce dal sogno e lei sa essere sogno quando non c’è luce ad illuminare la realtà.
Lo sa e lo odia.
Odia se stessa.
Odia l’ombra perché odia i sogni che scompaiono alla luce.
Odia la luce perché odia i sogni che non sono fatti di ombra, perché invade l’ombra distruggendo i sogni.
Pensa anche a questo la cortigiana mentre riprende il suo cammino. Non basta l’esperienza a dimenticare tutte le ombre in cui si è vissuti e a desiderarne una nuova capace di dimenticare ancora.
L’ombra è un vino che divora l’anima, che abitua a dimenticare, a vomitare tutto ciò che si è inghiottito solo per tornare a inghiottire, è il vino del barbone: una coperta di sogni che separa la mente dalla coperta di vomito e piscio in cui muore assiderato dall’indifferenza della luce.
Ogni volta che la cortigiana riprende il cammino, che ritrova la perfezione dei propri riccioli, l’arroganza intangibile dei suoi seni, la sottile timidezza delle sue caviglie e pensa alle ombre cui di nuovo si offrirà, sentendosi libera di ogni catena e sogno, vede l’illusione di un mondo senza ombre, l’unico nel quale potrebbe davvero vivere e uno dei tanti da cui è stata di nuovo vomitata.
In quei momenti, i suoi occhi vedono la Provenza di Cezanne ma, come Cezanne, Gauguin, o Utrillo, sa che il suo mondo non è quello. E’ la notte di Montparnasse impastata da un tubetto di colore spremuto da Soutine con gli inganni delle nebbie di Montmartre.
E scompare negli abissi di tutte le ombre che altri ha vomitato nella generosa avidità del suo animo.
La più falsa immagine dell’amore è un bambino al seno,
quel bambino è egoismo soddisfatto: tutto dipende da quello che non si ha il coraggio di pensare possa diventare abbandono.
Non è nemmeno un ricordo, non si ricorda il sapore del latte materno.
E’ una paura, la paura di poter dipendere ancora completamente da una persona, dal suo cuore,
una consapevolezza, la consapevolezza che una madre non pensa sempre al figlio. Che spesso si sente morire nel suo sguardo. Che può pensare che lui le stia rubando la vita. Ma non glielo dice. Finge di amarlo. Il suo amore è menzogna per non fare male con una verità troppo grande per il suo bambino, e quel bambino è più solo della solitudine perché la mano che stringe non pensa a lui, prova compassione solo per se stessa con pura crudeltà di madre,
eppure si cresce nel rimpianto dell’egoismo soddisfatto, è una malaria dell’anima, quell’abbandono che genera la pietà della menzogna.
Niente è più lontano dall’amore dell’istinto che si abbarbica alla speranza di una fiducia capace di sconfiggere la paura del buio, di quella notte che incombe in ogni goccia di pioggia, di quella voglia di travestire la paura che è mestiere di vivere.
Ma uno dei tanti sarcasmi della felicità è che le menzogne sono un cibo che svezza dal bisogno di speranza.
Le pozioni di amore sono intrugli di mandragola e ramerino,
mela e cannella, aglio e sangue, mescolati con birra chiara e malto,
le streghe sanno farle, gli uomini non sanno rifiutarsi.
Portano ovunque, fanno dimenticare tutto,
trascinano in un mondo in cui sembra che tutto sia ancora giovane,
in cui i sogni sono adolescenti e il cuore ricomincia ad ascoltare i suoi battiti.
Non perdono i loro effetti le pozioni di amore.
Sono persistenti, allegano l’anima al sogno, dissetano il cuore con la geometria della speranza.
Solo chi le ha confezionate, conosce il rimedio e ha bisogno del buio, di uno sguardo cattivo, di parole senza dolcezza, di nervosa cattiveria,
Fino a che non è vomito, un feroce e amaro schizzo di vomito, nel quale si riconosce tutto ciò che quell’amore è stato, pezzi di anima e di cuore come cibo maldigerito dal vino di una nottata di bagordi.
Quel vomito è l’antidoto perché dall’amore si guarisce solo sputando i succhi gastrici dei propri sentimenti che non sono riusciti a digerire la potenza del sogno.
Cassandra guarda il mare e, finalmente, non vede niente
Non vede più Apollo che le sputa sulle labbra perché lei, bambina, non avrebbe voluto vedere il futuro
Non pensa più che sia un dono maledetto vedere ciò che accadrà ed essere condannata a non venire creduta perché altrimenti il futuro non potrebbe più essere
Non vede più un cavallo cavo che rimbomba di armi e scudi e un popolo in festa che lo accompagna ebbro di rovina
Non pensa più che quel cavallo portava eroi e criminali, assassini intelligenti e vanaglorie d’imprese sanguinarie
Non vede più il tempio di Pallade Atena, il suo stupro, lo sguardo della dea che si distoglie dal sacrilegio, il piccolo Aiace che la penetra con l’ansia di chi violenta un sogno, di chi ha conquistato il diritto di violentare un sogno
Non pensa più che Aiace Oileo, di lì a poco, sarebbe naufragato con la sua nave, che gli dei gli avrebbero graziato la vita, solo per guardarlo aggrappato a uno scoglio gridare che neppure il mare era capace di rubargli la vita e, in quel momento, lasciare a un mostro marino il compito di divorarlo.
Perché questo aveva fatto paura a Cassandra, dal primo momento.
Non la preveggenza.
Non il feticcio cavo a forma di cavallo escogitato con astuzia d’Ulisse.
Non l’orgia di saccheggio che avrebbe ucciso tutti coloro che aveva amato e con cui desiderava vivere e nemmeno lo stupro sull’altare di una dea che tutto questo aveva consentito.
Ma sapere che penetrarla sarebbe stato tutt’uno con l’essere divorati da un mostro.
Via del Vaiolo puzza di ricordi morti e pagine strappate
Una parca vende quaderni che non finiscono perché le prime pagine si cancellano quando si è arrivati alla fine
Chi comincia da capo ha il coraggio di scrivere sopra se stesso come se fosse una pagina bianca
Bisogna avere scritto tanto per arrivare dove non si può non andare oltre
Ma se in via del Vaiolo, ci si capita per l’ironia del caso o la stupidità del viaggio, la solita parca vende solo quaderni normali, ai quali si possono strappare pagine, senza più nulla poter aggiungere
I quaderni di chi non ha il coraggio di scrivere sopra la propria vita
E’ avara di vita la parca di via del Vaiolo. Finge di essere generosa tagliando il filo che ha tessuto con il movimento pigro, indifferente ed elegante della cortigiana che sa aprire le gambe allontanando la bocca dalla futilità dei baci.
Era nata o nato in un corpo che non era il suo.
Aveva imparato a nasconderlo e forse lo aveva anche cambiato un po’.
Camminava, spesso, in quelle ore in cui non ci si incontra. Quelle ore che nascondono le rughe e nelle quali è più facile lasciarsi amare da chi non conosce l’amore.
Viaggiava con gambe muscolose. Fasciate in fuseaux neri che la facevano somigliare a un ciclista più che a una donna.
Solo una volta l’ho sentita parlare. Ha preso fra le sue le mani di una donna di servizio. Una ragazza, rumena, poco più di venti anni. Meno di trenta all’anagrafe. Molti di più allo specchio, ma quello non importa.
Ha detto che erano belle ma le unghie erano rovinate e le ha chiesto di passare perché voleva sistemarle. Ha voluto specificare che non le avrebbe chiesto nulla.
Ho visto il sorriso di quella ragazza. Sfiorata da un’attenzione piena di dolcezza. Un sorriso di chi non spera più di trovare parole dedicate a lei.
Adesso, è morta. Come si muore in un appartamento. Sola e di solitudine. Suicidio per cause naturali, anche se il medico legale scrive diversamente.
Ma a me piace ricordarla mentre camminava. Fuori luogo, nelle ore più calde o in quelle più fredde. Mi piace pensare che sia stata ingoiata dalla strada, da questa strada che osservo ogni giorno dall’alto e che mi somiglia a un mare.
Un mare senza pietà che sa inghiottire i suoi naufraghi e non dona nessuna allegria a chi sopravvivendo riprende il viaggio.
Resta la sua casa con le finestre chiuse come palpebre sotto il sudario.
Oggi, non c’erano rondini
Danzavano sopra le nuvole
Nascondendo la primavera
Fino a maggio, quest’anno, è arrivata la solitudine dell’inverno.
Norma Rangeri sul Manifesto di questa mattina ha preso una posizione chiara a favore dei rider, i fattorini che portano piatti pronti dai ristoranti alle case dei loro clienti.
I rider hanno fatto notare ai clienti, ricchi e famosi ma anche piuttosto tirchi, che sanno dove abitano.
Il che suona come Voi non ci date la mancia e noi raccontiamo a tutti dove state di casa, così imparate
Per Norma Rangeri, non ci sarebbe niente di male in un fattorino che chiede la mancia e ciascuno dovrebbe sentire il dovere di remunerare spontaneamente il lavoro di chi sa non essere pagato in misura tale da poter vivere una esistenza libera e dignitosa secondo il contratto collettivo di riferimento.
Una posizione più che discutibile e molto vicina alla retribuzione compassionevole del cameriere nei paesi di lingua inglese.
La prima volta che sono stato in un albergo di lusso, il facchino mi prese la borsa malgrado le mie proteste, mi accompagnò alla camera, mi mostrò con cortesia tutto quello che dovevo sapere e, quando tirai fuori di tasca cinquemila lire, disse Questo è il mio lavoro chiudendo la porta sul mio imbarazzo.
La lotta per un contratto più giusto ed equo è ragionevole, legittima e, spesso, degna di ammirazione.
Il ricatto per la mancia è altro. E’ l’assalto dei miserabili al palazzo del re.
Dispiace leggere sul Manifesto la sua difesa ma un tempo in via Tomacelli c’era anche l’ufficio di Craxi e non solo la redazione del più puro fra i quotidiani della nazione.