Leone
Leone, lo chiamava il suo babbo, perché era un leone in gabbia ovunque si trovasse.
A scuola, ma anche sul campo da calcio e perfino sul pratone dell’Olmo, che è davvero grande e per quello che allora era un bambino delle elementari conteneva Far West e Yukon, confinando i mari del sud e il Peloponneso di Ulisse.
Si staglia ancora oggi in questa sala d’attesa per nulla sterile, sporca di vecchi, di piscio di vecchi e donne incinte.
Come uno scoglio quando la tempesta lo copre e si richiude in se stesso per non affogare, per respirare gli ultimi fiati di schiuma.
È nelle Urgenze, che significa un tumore, un malaccio, una terapia biologica, un troiaio che leva il sonno e strappa i capelli sotto il cappellino che è la divisa di questa porzione di dolore.
Leone: un cazzo, pensi mentre lo copri di quell’oblio che è pietà e sudario distogliendo lo sguardo.