Le maschere di Venere
Venere esce ogni mattina, bacia la figlia, lascia che faccia finta di non piangere e che si avvolga in una sciarpa impregnata del suo profumo
Sonnecchiano qualche istante insieme nell’ombra dei baci e nel riparo del profumo
Venere si lascia avvolgere dai sogni della bimba, la bimba entra nella fresca ombra della sciarpa.
Sale in macchina, apre il cruscotto, indossa la prima maschera di quella giornata
Venere impasta il suo dolore dentro la maschera, solo gli occhi escono, luminosi del riverbero del mare: fuori, dentro: aperti sulle tenebre
Ha scelto l’intimo coordinato alla maschera
Lo esporrà nella notte delle persiane chiuse, la notte delle undici del mattino, solo per sentirsi dire parole senza sacrifici che compensano doni senza oblio.
Venere ripone la maschera, ne prende un’altra. Ballerine e pantaloni, libri e computer, un giornale aperto sulle ginocchia
La maschera dell’aperitivo. Dura poco, sempre meno. E’ una maschera orribile perché ha i colori degli orizzonti che non tornano.
L’ultima maschera, però, arriva con la notte quando Venere è quello che la sua vita ha deciso che deve essere
Nulla più di una immagine da esibire, nulla più di un corpo da profanare con parole oscene dove dovrebbe essere serenità di lessico familiare
La indossa perché deve, perché è il prezzo di quello che la sua vita ha deciso che diventasse, la indossa perché con quella maschera non sente più niente.
Solo gli occhi sono sempre gli stessi
Dentro ogni maschera
Luminosi come il riverbero del mare per chi ha il coraggio di osservarli
Neri come la notte per lei che, talvolta non sempre, ha la forza di usarli anche per vedere e non solo per essere guardata.