Nel mio tempo che non è più il tuo e non lo è mai stato (l’Orfeo del Joyce)
Euridice è morta, morta per sempre, morta per un giorno, morta come chi non è mai nato
Euridice vive del mito e il suo mito è il fumo sapido di birra scura irlandese di Joyce
Joyce ha creato Orfeo mostrandogli Euridice
Lo ha creato perché prima di Euridice Orfeo non esisteva, non aveva parole, non sapeva neppure leggere
Orfeo è nato innamorandosi di Euridice, scoprendo dentro i suoi occhi le parole che non sapeva di conoscere
E’ stato felice Orfeo delle parole che Joyce, una pinta dietro l’altra, distillava da Euridice
Ferite che aprivano l’anima di Orfeo
Ma Joyce è fallimento di spiriti, insaziabile più di un vampiro dei fumetti, fallimento che uccide
Euridice è morta per caso, uccisa da un serpente mentre fuggiva da un pastore avido di piacere?
Euridice è morta davvero mentre si lasciava trafiggere dal serpente di un pastore avido di piacere?
Orfeo non lo sa
Sa che Euridice è morta ogni volta che si è lasciata trafiggere da serpenti avidi di piacere, è morta per lui
Lui che aveva creduto a Joyce, a chi lo aveva plasmato con parole di pinta facendogli credere di avere trovato parole dell’anima
Non aveva trovato niente e ha guardato la morte di Euridice, disperato, senza più speranze
L’ha guardata morta, illudendosi che fosse morta, scendendo nell’Ade per chiedere la restituzione della sua vita, perduta senza nessuna colpa, come se esistesse chi è responsabile del proprio suicidio
Ma Euridice era viva, perfettamente viva, lo sapeva bene chi aveva imparato a trafiggerla: Euridice non esiste per te, esiste per sé, esiste solo nel suo tempo e tu esisti nel tempo che Euridice ti dona, non guardare Euridice nel tempo che non ti appartiene, non guardarla perché muore, bevi il tempo che Euridice ti dona, non altro, accontentati e lei sarà felice e tu sarai felice
Il segreto del pastore avido di piacere, il segreto del serpente sazio: non c’è bisogno di vecchiaia per la saggezza
Joyce, il fallito dio dell’Ade, ha accolto Orfeo in mezzo alle rovine di vite decomposte, in mezzo alla sozzeria che resta quando il corpo smette di cagare, lo ha guardato con malvagia ironia, con la crudele pietà della pigrizia e gli ha restituito Euridice avvertendolo di non guardarla, di suonare le parole che lei gli aveva donato ma di non guardarla perché sarebbe morta di nuovo
Orfeo non ha capito: Euridice può vivere solo se non la guardi nel suo tempo perché il suo tempo non è il tuo tempo perché nel suo tempo che non è il tuo tempo Euridice beve il serpente dei pastori avidi di piacere e nessun Orfeo può sostenere quella vista senza morire
Così Euridice è morta, per sempre, per un giorno, come non fosse nata
Ma non per la rabbia di vederla assetata di pastori, che sarebbe banale e Joyce non è banale, ma perché Orfeo sa che la sua lira non merita di diventare un pastore avido di piacere, non merita di vivere della sfrenata consapevolezza dell’orgia dei serpenti perché accontentarsi del proprio tempo non è solo seguire Euridice nel suo tempo è soprattutto accettare ciò che Euridice è ed Euridice è fame di pastori, pastori avidi di piacere, sazi del proprio tempo e chi è affamato di ciò che è sazio non ha fame della propria fame
Così l’unico che muore, alla fine, è Orfeo, si lascia morire cantando, affamato della propria fame, mentre Euridice danza il ballo della sazietà.