Memoria di Luigi
Sono mesi che le mie dita hanno lasciato queste scie, avvolte in un’ombra fredda e densa che spella i miei sentimenti, annulla le mie parole prima che si formino, concentra le forze in belle immagini di birra e tabacco biondo firmate Hermes.
Mesi di freddo e delusione fredda come vino di acciaio.
In questa notte, appare Luigi con tutta la irreparabile forza della sua morte e degli anni trascorsi dalle ultime parole che abbiamo scambiato.
Luigi era un uomo che aveva saputo lasciare tutto e da questo molto imparare l’arte del riciclaggio.
Sapeva trovare una lavatrice in un bosco, smontarla e ricavarne mie utensili più una ciotola per l’insalata che ancora oggi uso.
Sapeva scavare nella sua mente sino a masticare un ricordo e raccontarlo con grazia, anche se era fatto di fame e paura, della fame e della paura che avevano attraversato come una oscura tempesta gli Appennini della sua infanzia.
Un paio di scarpe nelle sue mani non erano mai abbastanza rotte per non poter camminare di nuovo e quando non potevano più camminare diventavano un utile d’altro che sempre stupiva e commuoveva.
Così di tutte quelle parole, delle tante giornate passate alla corte roca di quell’accento parmense che se chiudo gli occhi sento fra le dita, restano una ciotola di insalata e un paio di scarponi rincollati.
E il sorriso di suo figlio, quel filo di bava che lui asciugava come se fosse normale, sorridendo a sua volta di una nascita che sapeva di miracolo ma che non aveva mai imparato a camminare.
Perché di tutto e prima di tutto aveva imparato a riciclare anime.