Il figlio perduto del mare: memoria di Ace Cool
Ha preso la sua tavola.
Una fra le altre, non la preferita, non la più bella, quella più adatta per quel giorno, per quel mare e per quella baia.
Ha lasciato il pick up, le chiavi nel cruscotto, come può fare uno che è conosciuto da tutti, uno che sta per tornare ma da anche che se non tornasse sarebbe un peccato sfondare un deflettore, che adesso non ci sono nemmeno più.
È sceso in mare, le giuste bracciate per trovare il cavo dell’onda. Le giuste bracciate per spingersi alla stessa velocità dell’onda. Per sentire il sapore di quel momento in cui il mare sa essere meravigliosamente accogliente.
Solo un pazzo uscirebbe con queste onde.
Solo un pazzo affronterebbe la forza di un uragano.
Solo un pazzo cercherebbe la morte nell’emozione della morte.
Lo pensano le sue bracciate, la sua schiena, l’eleganza del movimento con cui si alza in piedi subito prima della cresta.
Non lo pensa la sua mente. La sua mente pensa di essere ancora il bambino che più di cinquant’anni fa iniziava a conoscere quelle onde. La sua mente è un bambino che per mano al padre non ha paura di niente.
Ma oggi il mare è suo padre per l’ultima volta ed è bello che sia così.