La fine del viaggio
La fine del viaggio è quando si scende a terra, quando si lascia il disordine del pozzetto in cui si sono vissuti gli ultimi giorni.
La fine del viaggio è sempre panico e sgomento.
Il pozzetto è un universo rassicurante, un mondo di cui conosciamo tutto, ogni attrezzatura, ogni rumore, ogni ombra.
Un pulpito sull’abisso e un ascensore verso il sole.
Sa essere casa e ponte di comando, permette di leggere un libro, scarabocchiare un’osservazione sul libro di bordo, e, nello stesso tempo, consente di cazzare le borose in un groppo improvviso perché tutto è sempre dove deve essere, nell’esatto punto in cui, accecati dalla notte, il vento e la pioggia, si sa di trovarlo e lo si deve perché se non fosse così sarebbe un problema.
Il pozzetto finisce sulla banchina di un porto, l’ultimo argine che contiene il mondo prima che invada il mare.
Di là, in quella che chiamiamo casa e in quello che consideriamo il nostro mondo, aspetta il disordine e la confusione, l’affascinante complessità degli sguardi e la vita vissuta come un crudele passatempo per gentiluomini, purtroppo aperto all’iscrizione anche di chi gentiluomo non sarà mai.
L’intelligenza del particolare inutile, nel pozzetto, è capacità di prevedere l’improbabile e perciò virtù del comando.
Adesso torna ad essere pedanteria ed eccesso di analisi.
Il mal di terra non è dondolare perché il pagliolo non si muove sotto i piedi.
Il mal di terra è il senso di panico e angoscia che prende ogni volta che si lascia un mondo di cui si conosce ogni suono e riconosce tutte le vibrazioni per precipitare nell’imprevedibile, quotidiano abisso.