In questa nera buona terra
Joseph Roth scrive da qualche parte che solo i poeti e i cretini continuano a scrivere poesie una volta terminata l’età dei brufoli.
Vero. Cinicamente vero.
Eppure la poesia fa pensare.
Ci sono poesie che hanno una consistenza spaventosa, una densità di immagini e simboli che travalica la lingua utilizzata per esprimerle.
La bibbia, ad esempio, ha esattamente la stessa densità che la si legga in latino o in inglese.
Non perde niente l’immagine di Dio che chiama gli alberi e le montagne a testimoni della sua giustizia.
Così la Achmatova.
Così l’Omero di Ulisse ma anche quello di Katzanzakis.
Queste poesie hanno la stessa consistenza della musica: comunque parlano all’anima e ne definiscono i confini costruendo un Leviatano in cui gli uomini non sono uniti dalla sovranità ma dalla stessa musica e dalle stesse sensazioni.
Poi c’è la cavallina storna, che non sarebbe poesia se fosse disarcionata, che ha un senso solo nell’ecosistema in cui è stata scritta. Non ha niente di universale. Parla di quel mondo fatto di polvere, maremma e vino acido di botte mal lavata.
Infine ci sono i quaderni che si trovano dal rigattiere, poesie che compongono un ecosistema ancora più ridotto: quelle due, tre persone a cui si rivolgono, sono un semplice dialogo. Niente di universale o di universalizzante.
E’ idiota per chi scrive in quei quaderni pensare di essere un poeta, pubblicarsi, magari a spese proprie, o imperversare sui social: semplicemente non è interessante.
Ma, forse, è ancora più cretino considerarlo idiota: in questo Leviatano mite la grande poesia unisce tutti, mentre le altre forme di poesia uniscono alcuni gruppi di persone più o meno piccoli fino alla non poesia, che raccoglie piccolissimi gruppi di persone, il lessico familiare della Ginzburg.
Questa minima non poesia ha una dolcezza infinita anche se è lontana dalla potenza di In questa nera buona terra perché è lei, che, in fondo, rende la vita degna di essere vissuta.