Addio, Michelangiolo
Non riesco a non passare da via della Colonna, e ci passo tutte le mattina sostanzialmente da quarantacinque anni, fra una cosa e l’altra, senza pensare che, quest’anno, nessuna delle mie figliole è più chiusa in quel Liceo.
Mi dispiace, sotto un certo aspetto mi fa sentire ancora più anziano e non ce ne sarebbe nemmeno troppo bisogno: chi nasce vecchio non ha bisogno di invecchiare ma solo di rimbambire.
Però mi chiedo il senso di questo passaggio, il significato di quell’espressione (“maturità”) che vede il trasferimento dal liceo alla Università o al mondo del lavoro.
Il senso profondo di questa espressione è nel mansionario del docente fino alle scuole superiori che prevede non solo l’insegnamento della materia in cui quel docente è incardinato ma anche l’educazione dell’allievo.
Questo, ovviamente, non è nel mansionario del professore universitario che deve unicamente insegnare la materia in cui è incardinato, oltre che fare ricerca, ma questo, si sa, può essere più complesso.
C’è nella scuola pubblica (o privata) una parte essenziale di lavoro sulla educazione degli alunni.
Non nascondo che questo aspetto mi ha sempre un pochino disturbato: ognuno, nel mio modo di pensare, educa se stesso e la scuola consente di maturare attraverso lo studio di argomenti che stimolano questo processo di autoformazione, ma non in altro modo.
E, soprattutto, sono felice che, finalmente, le figliole siano arrivate al punto in cui ai docenti interessa solo se sanno rispondere alle loro domande e non quello che pensano.