La ritrovo.
Al suo posto.
Un po' sporca ma pronta a partire.
L'accarezzo a lungo.
Con lo sguardo e con le spugne.
La conquisto di nuovo lavandola.
Ritrovo il ritmo di piccoli gesti quotidiani.
Il piacere di conoscere ogni vibrazione.
E finalmente dormo.
La stessa sensazione che si prova quando si riunisce di nuovo la famiglia.
Una barca non è mai solo una barca.
Il luogo è di perfetto e banale squallore.
Avvocati con gilet da caccia per nascondere le squame.
Segretarie carine come l'attesa di Godot.
E questa splendida tipa che indossa un guanto bianco che fa immaginare un romanzo d'appendice.
Ci vorrebbe Balzac per costruire una storia con questo guanto.
Lei, no.
Lei quando parla dice tutto su se stessa.
Ma soprattutto parla bene di sé solo quando sta zitta.
Penso tutto questo mentre fisso la punta delle mie scarpe e mi accorgo di essere fortunato ad avere un juke box di storie nel cervello che suona anche solo con un guanto bianco perché se capissi davvero dove sono e cosa faccio, non riuscirei a trovare così interessante l'oggetto del mio sguardo e sarebbe un problema.
Sbuffa come un Larderello.
Il suo problema è che nessuno lo assume.
Il nostro problema, lo stesso che ha lui. Perché se qualcuno lo avesse assunto non sarebbe qui.
Eppure – continua a ripetere – sono una categoria protetta anche io…
Chissenefrega?
Non lo dice nessuno.
Solo l’imperturbabile silenzio della anziana ragazza che a occhio ha spento tutte le sue candeline riempiendo il modulo per la pensione da Maitresse.
Sbarca il calvario in una casa che ha il profumo delle ringhiere ingrassate dal sudore di mani pulite con il detersivo e di unghie che non si possono più pulire.
Il profumo del lavoro e delle mani che lavorano.
Dipinge con tanta “materia” e racconta i suoi quadri all’unico che li può capire di turno, che infatti li capisce e li lascia stare dove sono.
Sa parlare, sa mettere le parole in fila come una lunga collana di perle finte e fiori di campo appassiti, quasi non avessero il sapore dei suoi denti guasti e di un soffritto che piange di solitudine in una padella.
Spiega con la stessa allegria del soffritto dell’erba che fuma, come se la cortesia con cui lo si ascolta non fosse l’imbarazzo di questi odori che fanno ricordare tutto quello che secoli di fame della tua razza hanno cercato di scordare, che lui non fuma perché fuma, fuma per l’arte, perché l’arte ha bisogno di fumo e follia.
Concludendo che lui non è mica male, lui alle donne gli disegna anche il pube, mica come i greci che erano tutti finocchi.
I denti sciancati iniziano a ballare di una risata folle e senza ritegno, perché lui è furbo e sa suonare il violino.
Nessuno ha visto l’oggetto di questa discussione.
L’oggetto di questa discussione è lontano dal nostro tavolo ed è invisibile.
È il cameriere. È il mistero che guida i suoi passi. Alcuni non hanno bisogno di ordinare. Alcuni vedono calare il cameriere al loro tavolo senza avere mai avuto bisogno di farsi vedere.
Altri devono sbracciarsi anche solo per ordinare il caffè alla fine di un pranzo durato ore.
Non è facile capire perché.
Che cosa cambia nell’uno dall’altro.
La risposta non è confortante. La risposta è che:
signori non si nasce. Signori si è quando i camerieri ti considerano uno da tenere d’occhio quando è arrivato il momento del caffè.
Perché si sa sempre quando è il momento del caffè per un signore o quando un signore ha finito il vino: un signore mangia nell’ordine giusto e con il tempo perfetto. Non è come me che prendo due volte l’antipasto e ci rutto sopra un fiasco di vino nel tempo in cui si dovrebbe piluccare un’ostrica.
Lasalle e la sua distinzione fra le costituzioni di carta e le costituzioni reali non c’entra nulla con questi discorsi.
O forse no?
Mi guardo i piedi e tengo le mani in tasca.
Anche oggi che è l’ultimo giorno di scuola di bimba piccola, che era bimba piccola quando aveva tre anni e adesso ha finito le elementari: sa scrivere e far di conto, quasi come un avvocato.
Mi guardo i piedi e tengo le mani in tasca, perché ho il cuore pieno delle sue lacrime mentre saluta le maestre.
Ma soprattutto perché so che se lei è come me e lei è parecchio come me non bastano quelle lacrime per tornare indietro.
Non basta il cuore pieno di nostalgia per fermarsi, perché domani è davvero un altro giorno e domani saremo dove oggi non siamo mai stati.
La mia tata era la mamma che non ho mai avuto.
Lo sapevo io. Lo sapeva lei. Non ce lo siamo mai detto. Perché non stava bene e io una madre ce l’ho.
La mia tata era un gesto veloce e furbo, due mani forti di rughe e di sogni, occhi color dell’ombra fra i castagni. Profondi. Generosi.
Non aveva tante parole.
Non teneva nulla della sua paga. Erano soldi d’altri, che servivano ai mille bisogni di una famiglia che teneva insieme con la pazienza dell’amore. Solo uno spicciolo rubava alla sua paga prima di salire sulla corriera e tornare. Un gratta e vinci perché la mia tata aveva un sogno, avrebbe voluto aprire una lavanderia. Solo essere finalmente padrona del suo tempo.
La mia tata si è spenta nel suo letto. Piano perché non voleva morire. Si è spenta quando ha capito che ormai le sue mani non erano più utili, quando si è resa conto di non poter più tagliare due fette di pane per regalare una merenda e un sorriso di castagne.
Le è morto il sorriso e si è fatta piccola nel pigiama felpato d’ospedale, perché il suo posto non era fra le malattie e i malati che parlano solo del loro dolore come un naufrago può parlare dell’abbraccio di uno scoglio.
Il suo posto era fra i bambini in un canto di fiume fra la strada e l’orto.
Quel canto in cui sono stato solo una volta per piangere con lei un composto addio per un amore durato tutta una vita e adesso devo tornare.
Cinquant’anni sono l’idea di avere fatto più di metà strada.
A quaranta si pensa che gli ottanta siano un traguardo raggiungibile. A cinquanta si è capito che la vecchiaia è una demenza che puzza di cacca e piscio.
Sono due figlie che per la prima volta scelgono il tuo regalo da sole trovando una sfumatura di Lacoste che ancora non possiedi e soprattutto la dolcezza di una nonna che sanno molto amata e che le regalava ogni anno.
Infine è un bellissimo cestino per la carta straccia di Starck in cui smaltire tutto la fatica di questi primi cinquanta.
E ancora non sono le otto, l’ora di prendere la bicicletta. Perché il mio regalo è la traversa del Mugello, dalla Faentina.