25/05/2010
Il disegno di legge sulle intercettazioni pone tre diverse questioni di rango costituzionale: il diritto di ciascun cittadino alla privacy, il diritto dei mass media ad informare l'opinione pubblica, il dovere dello Stato di assicurare una efficace azione di repressione dei reati.
Sul primo di questi diritti, non vi è davvero molto da dire. La privacy è una proiezione della libertà personale: è il diritto di ciascuna persona a potersi esprimere liberamente perché al di fuori di ogni controllo dello Stato o di altre persone. E' quel diritto che ciascuno di noi rivendica da piccolo quando vede un genitore che fruga nel suo diario (ai tempi di chi scrive) o nel computer o fra gli sms (ai tempi di oggi).
Nemmeno c'è da molto da dire sul secondo. Lo Stato funziona nella misura in cui è una macchina trasparente ed ogni opacità sulle sue finestre, anche sulle finestre della azione penale, rischia di essere un pregiudizio per la democrazia.
Ancora di meno da dire sul terzo. Lo Stato ha cominciato ad esistere quando ha imbracciato l'azione penale e l'ha trasformata in processo.
Tutti questi aspetti, però, emergono in una sintesi di valori che è tipicamente politica.
La privacy dei figli è molto diversa vista dai genitori ed anche loro qualche ragione possono averla nel volere sapere chi è che manda un sms alle tre del mattino o con chi era il pargolo quando è tornato con gli occhi di una triglia non particolarmente felice.
La libertà di cronaca può facilmente rovinare una persona solo per vendere qualche copia in più: i giornali escono tutti i giorni e la cricca della Banditella, no.
L'esercizio della azione penale ha bisogno di essere temperato e poteri istruttori particolarmente incisivi possono degenerare in una struttura socialmente inquisitoria, come accade nelle indagini che si muovono "a strascico": le intercettazioni non sono solo uno strumento indispensabile per scoprire i reati ed accertare i colpevoli, sono anche ciliegie che è molto difficile smettere di mangiare e che donano un potere di conoscenza quasi esoterico a chi le compie.
Il bilanciamento di queste esigenze è politico ed il Governo ha il sacrosanto diritto di proporre alle Camere un testo che cerca di trovare un ragionevole punto di equilibrio.
Il punto non è questo.
Il punto è che il Governo cerca di imporre alle Camere il proprio punto di equilibrio, con una presenza assillante nel dibattito parlamentare.
Il ministro Alfano si presenta in Commissione Giustizia.
Può farlo, i regolamenti parlamentari lo permettono e la Commissione Giustizia è naturalmente strutturata come il luogo in cui il Parlamento discute con il Ministro della Giustizia.
Ma perché è il Parlamento che chiede al Ministro della Giustizia di chiarire il suo operato dinanzi ai rappresentanti del corpo elettorale.
Non perché il Ministro della Giustizia chiede al Parlamento di giustificarsi dinanzi al Governo.
In questo modo, il Parlamento diventa un ircocervo: un qualcosa che ha un nome che lo designa ma di cui nessuno oramai conosce più l'essenza.