I sogni tornano mentre la vita sfugge.
L’ossessione è un tormento continuo, infaticabile, conquista ogni centimetro della mente, la riempie, la svuota, la gonfia come sperma in utero putrefatto.
La tua ossessione.
Non la mia.
La mia era solo un romanzo da scrivere con le tue parole.
Lutto di futuri scomparsi.
Dolore di prefica per i domani racchiusi da una bara.
Frangore di naufragi a venire.
Oscurità di pire che danzano nella notte.
Il passato è la solitudine che resta quando il futuro è scomparso nel suo estremo punto di fuga.
Quello che resta non c’è più: una manciata di sogni vomitata dalla verità.
Parole sprecate nella pattumiera del tempo.
Crudeltà, compassione.
Cattiveria raffinata, i suoi occhi.
In cui avresti voluto essere amato, che splendono di altre immagini, altri sogni, altri domini.
Doppio sogno è sudicio suicidio.
Nessuna allegria in questo naufragio.
Solo relitti e desiderio di abisso.
I ponti appartengono al Diavolo. E’ il Diavolo che li costruisce. Chiede l’anima in cambio o il sacrificio di una vergine.
Il Diavolo unisce luoghi distanti e irraggiungibili, il viaggio è un luogo perfetto per perdere la propria anima.
Eppure senza ponti, i cuori restano distanti e non esiste solitudine più profonda delle otto miglia che separavano le pievi del Medioevo.
Profonda, gretta ed egoista.
I ponti sono necessari per liberarsi dalla schiavitù e il Diavolo aspetta gli schiavi che vogliono fuggire.
Gli offre la libertà più facile: scendere con il loro collare nel più profondo dei pilastri e restare lì, inchiodati a ciò che gli impedisce di essere liberi.
Il mio sogno è uno schiavo che in mezzo al ponte ha il coraggio di sfilarsi da solo il collare e gettarlo nel fiume.
Essere finalmente libero.
Ma so che non è facile perché, in fondo, ogni schiavo possiede il proprio padrone con tutto ciò che il suo padrone non potrebbe fare senza di lui e ne è felice.
E’ felice dell’intelligenza che si fa collare, del vizio che lo carezza, come un cane nelle mani che morirebbe se non trovasse e per il quale la peggior punizione è l’assenza di chi lo ha saputo addomesticare.
L’arte di addomesticare non è di tutti. E’ un’arte egoista. Un’arte che pensa di meritare l’incondizionata adorazione di un’intelligenza animale. Pochi sanno addomesticare un cane fino a farlo tornare randagio, anche se quella era la sua natura.
Quando il silenzio non ha più nulla da dire, ci si toglie il cappello.
Si saluta e si rende omaggio.
Si sorride e si ringrazia.
Si dice arrivederci perché di addio se ne sono detti davvero troppi e non ha senso ripetersi.
Ushuaia si trova nella Terra del Fuoco ed è all’imboccatura del canale di Beagle, il passaggio più interno fra l’Atlantico e il Pacifico. Il più esterno è il Drake Passage e il più spettacolare è lo Stretto di Magellano.
Un posto per veri marinai, persone che sfidano se stesse per trovare lo spettacolo di una natura crudelmente incontaminata, di un mare che inonda il ponte di onde forti come incubi e di un vento incessante, un fischio negli orecchi che accompagna per giorni e giorni, anche dopo che si è arrivati in Cile, anche dopo che si è raggiunto il Messico.
Ma Ushuaia è anche un rifugio sicuro. Uno spazio in cui chi osserva Capo Horn può decidere di restare perché per arrivare a Capo Horn ci sono molti ponti da tagliare, molte cose da abbandonare e chi arriva a Capo Horn sa che può tornare solo se lo attraversa, se riesce a mettere la prua su Beagle, Magellano o Drake.
Ushuaia è il tempo in cui si raccolgono le forze prima del balzo, in cui si osserva il meteo, in cui ci si interroga con i vicini di barca e di ormeggio, il luogo in cui, alla fine, si può anche decidere di restare per tutta la vita perché a Ushuaia i venti non hanno un nome diverso dalla loro direzione che è quasi sempre NNW, con una forza superiore a 8, gran lasco su Capo Horn, traverso dove il mare si incrocia e, infine, bolina stretta per risalire. Significa che quando si parte, non si può tornare indietro. Che tornare indietro è faticoso quando andare avanti e, quindi, potrebbe non avere senso.
Questo è Ushuaia, il porto in cui si può decidere di restare per tutta la vita, perché una volta partiti non si può più tornare indietro.
Ma Ushuaia è anche un albergo di lusso a Ibiza, un posto per ricchi, in cui si può spendere più di 8.500Euro per una settimana, un posto da ombrelloni con l’aria condizionata e nel quale si pagano le cameriere per spruzzarle di champagne.
Mi domando se chi va all’Ushuaia di Ibiza sia mai stato nella vera Ushuaia o, semplicemente, sappia della sua esistenza e so che vale anche il reciproco, che chi conosce la vera Ushuaia non sa niente dell’albergo di Ibiza.
Un marinaio di Ushuaia potrebbe andare nell’albergo mentre nessuno in quell’albergo vorrebbe arrivare a Ushuaia o controllerebbe sul suo telefono che ore sono in quel lontano, irraggiungibile porto, per far respirare la propria nostalgia.
So che il marinaio di Ushuaia a Ibiza sarebbe solo come un naufrago vinto dagli incubi che ha ascoltato dalla voce del Capo. Una volta mi sarebbe piaciuto sperare che il turista di Ibiza, invece, era solo una persona che non aveva mai incontrato nessuno capace di raccontargli di Ushuaia, che se lo avesse incontrato, quelle parole lo avrebbero incantato e si sarebbe trasformato.
Ma non è così: ognuno ha il suo naufragio, nessuno è migliore o peggiore e il segreto di ogni naufragio è l’allegria.
L’uomo che corre non è Lucio Bezzana, anche se questa storia gli potrebbe piacere.
E’ un tipo che si vede spesso, nei posti più improbabili e alle ore più improbabili.
Corre, corre sempre. Talvolta con i pantaloncini e la canottiera da runner, ma più da mercato rionale che da Isolotto dello Sport. Più spesso vestito di un paio di jeans sudici e di una camicia sudata. Ai piedi delle scarpe da ginnastica consumata.
La sua non è un’ultramaratona. Assomiglia a una fuga. Corre e basta. Parla con se stesso mentre corre. Dice cose senza senso a chi incontra.
Non so quante persone lo conoscono. Ma fa parte dell’asfalto cittadino come il vigile con i capelli rossi o il furgone che porta via il ferro.
In ogni caso, non fa male a nessuno.
Oggi correva verso le cinque vie. Quando è arrivato a San Felice è stato urtato da una macchina. E’ caduto e ha mandato il conducente a quel paese. La macchina si è fermata e un sessantenne aggressivo, ha preso un bastone che teneva accanto al sedile del conducente e si è avvicinato urlando
Io ti ammazzo
L’uomo che corre lo ha solo guardato. Uno sguardo di Cristo. Senza neppure alzarsi da terra.
Il tizio si è sentito nudo come uno che ha cacato il proprio buco del culo. E’ risalito in macchina ed è andato via.
L’uomo che corre si è rialzato e ha ricominciato a correre, zoppicando, claudicando. Non fugge dalle sue domande. Fugge da tutto ciò che ha dentro un uomo quando viaggia con un bastone in macchina per essere pronto a picchiare i propri simili.
Il tempo delle mele ha rappresentato l’adolescenza di una generazione.
Avrebbe potuto chiamarsi il tempo degli ormoni ma probabilmente avrebbe venduto molti meno biglietti.
Il tempo delle more, invece, è il tempo della menopausa e dell’operazione alla prostata.
Sono gli anziani, coppie di anziani, che le raccolgono lungo le strade di campagna.
C’è qualcosa di profondamente poetico in quegli anziani, nella pazienza con cui camminano e nei cestini che portano sotto braccio.
Ma soprattutto c’è qualcosa di meraviglioso nel loro dialogo, si raccontano piccoli segreti fatti di niente, confidenze quotidiane, si scambiano parole che solo per loro hanno un significato che le rende speciali.
Quei cestini raccolgono il frutto che conclude l’estate e lo raccolgono perché c’è dentro tutta la dolcezza del tempo che è trascorso, perché sono stati capaci di trovarle insieme e perché le vogliono cucinare insieme: la marmellata di more, per loro, è il ricordo dell’estate che deve durare per tutto l’inverno.
Sono bellissimi e meravigliosi questi anziani che vivono il loro tempo delle more.
Il tempo in cui le ossessioni si sono calmate, sono diventate una marmellata di ossessioni, il ricordo di un’appartenenza reciproca che è stata capace di diventare dipendenza reciproca.
Il tempo delle more può essere infinitamente bello, lo si costruisce con le ossessioni del tempo delle mele, se si è capaci di essere la giusta ossessione della giusta persona, di condividere la stessa ossessione.
Perché niente è più triste del tempo delle mele che continua anche nel tempo delle more.
E niente è più bello di una ossessione coltivata con la pazienza di un cestino e cucinata con l’amore che la trasforma nella marmellata della vecchiaia, unrequited love.
I tabernacoli illuminano di devozione le notti in cui la chitarra di un vagabondo potrebbe trovare le dita del demonio
Non c’è forse tabernacolo la cui bellezza non sia anche ingenua. Non abbia voglia di raccontare una fiaba, di scaldare il cuore con un’immagine sacra
Sono spazi benedetti: qui Dio può lasciare il suo segno perché in questo luogo Dio è libero
Questo rubano i ladri di tabernacoli. Non un’immagine, non una protezione, ma uno spazio che era stato riservato alla libertà di Dio. Lasciano una maledizione, perché chi maledice, in realtà, si sostituisce a Dio
Maledice pretendendo di conoscere ciò che vede. Di sapere che cosa è accaduto. Di conoscere i valori che servono per descriverlo. Di sapere qual’è la conseguenza di questi valori per chi viene maledetto
Questo è un ladro di tabernacoli, non colui che sottrae un’immagine sacra: ma un uomo capace di maledire. E chi maledice si sostituisce a Dio.
Gli uccelli di mare sono quasi tutti bianchi, non blu, azzurri o verdi:
Hanno il colore del mare in tempesta, vogliono poter essere scambiati per schiuma quando si posano fra le onde di una burrasca
Lì hanno bisogno di nascondersi e di non essere visti,
Non temono che qualcuno li possa predare. Maltempo non è stagione di caccia,
Ma perché a nessuno piace essere visto mentre si arrende al fato.