14/07/2014
Non sono cinquanta le sfumature di grigio che ha visto il piccolo bretone nella sua breve vita.
Sono molte di più.
Ha corso e percorso la Francia, il Belgio e l’Italia.
Piegato sulla sua bicicletta, pesante come un cancello.
Ha bevuto vino e ruttato pioggia.
Riprendendo sempre a pedalare, sinché le gambe non sono diventate di piombo.
Lì dove le Ardenne sono state l’inferno di una generazione.
Si pedala fissando l’asfalto, diceva.
Non si alza la testa.
Non si guarda la vetta.
Si evita lo sgomento del panorama.
Si pedala fissando l’asfalto e aspirandone le sfumature.
Come gli eschimesi la neve o i polinesiani il mare.
Si intuisce dalla terra la forza di ogni singola pedalata.
Non si contano quelle che mancano.
Non si perde coraggio nella consapevolezza dei giorni che devono ancora venire.
Si prende coraggio dal presente di ogni spinta verso il basso e dal futuro del calcagno che torna verso l’alto.
E’ qui il senso di tutta la giornata.
In questa gamba sinistra che scende e in questa coscia destra che sale, mentre gli occhi traguardano il suolo oltre il manubrio e le sue strette corna, senza mai guardare il cielo.
Ma è così anche la vita.
La vita dei poveri abituati alla fatica della terra, al sonno pesante della notte alla dolorosa stanchezza dell’alba.
Ogni giorno, una pedalata che fissa l’asfalto, mai gli occhi al cielo.
Perché anche oggi c’è qualcosa da fare, qualcosa di urgente, qualcosa che se si alzasse gli occhi al panorama non si farebbe, presi dallo sgomento del futuro, dal bisogno del cielo stellato e dei suoi universi.
Finché questi occhi piagati di asfalto, come la cataratta di un pescatore, non sono sordi al pianto di un bambino sotto pelle e lì, in quel momento, diventa inutile continuare a correre.
Perché si corre per quel bambino e se si perde l’istante in cui ha bisogno di noi, meglio lasciarsi cadere, che nulla è peggio del raggiungere il traguardo e rendersi conto che le miglia di asfalto che hanno consumato i nostri occhi hanno anche dimenticato la nostra vita.