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Come se l’avesse visto Lasalle 

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
04/07/2017

Nessuno ha visto l’oggetto di questa discussione. 

L’oggetto di questa discussione è lontano dal nostro tavolo ed è invisibile. 

È il cameriere. È il mistero che guida i suoi passi. Alcuni non hanno bisogno di ordinare. Alcuni vedono calare il cameriere al loro tavolo senza avere mai avuto bisogno di farsi vedere. 

Altri devono sbracciarsi anche solo per ordinare il caffè alla fine di un pranzo durato ore. 

Non è facile capire perché. 

Che cosa cambia nell’uno dall’altro. 

La risposta non è confortante. La risposta è che:

signori non si nasce. Signori si è quando i camerieri ti considerano uno da tenere d’occhio quando è arrivato il momento del caffè. 

Perché si sa sempre quando è il momento del caffè per un signore o quando un signore ha finito il vino: un signore mangia nell’ordine giusto e con il tempo perfetto. Non è come me che prendo due volte l’antipasto e ci rutto sopra un fiasco di vino nel tempo in cui si dovrebbe piluccare un’ostrica. 

Lasalle e la sua distinzione fra le costituzioni di carta e le costituzioni reali non c’entra nulla con questi discorsi.

O forse no?

Mi guardo i piedi e tengo le mani in tasca

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
09/06/2017

Mi guardo i piedi e tengo le mani in tasca.

Anche oggi che è l’ultimo giorno di scuola di bimba piccola, che era bimba piccola quando aveva tre anni e adesso ha finito le elementari: sa scrivere e far di conto, quasi come un avvocato.

Mi guardo i piedi e tengo le mani in tasca, perché ho il cuore pieno delle sue lacrime mentre saluta le maestre.

Ma soprattutto perché so che se lei è come me e lei è parecchio come me non bastano quelle lacrime per tornare indietro.

 

Non basta il cuore pieno di nostalgia per fermarsi, perché domani è davvero un altro giorno e domani saremo dove oggi non siamo mai stati.

Anche se fossimo ancora qui.

Memoria di M.

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
04/06/2017

La mia tata era la mamma che non ho mai avuto. 

Lo sapevo io. Lo sapeva lei. Non ce lo siamo mai detto. Perché non stava bene e io una madre ce l’ho.

La mia tata era un gesto veloce e furbo, due mani forti di rughe e di sogni, occhi color dell’ombra fra i castagni. Profondi. Generosi. 

Non aveva tante parole. 

Non teneva nulla della sua paga. Erano soldi d’altri, che servivano ai mille bisogni di una famiglia che teneva insieme con la pazienza dell’amore. Solo uno spicciolo rubava alla sua paga prima di salire sulla corriera e tornare. Un gratta e vinci perché la mia tata aveva un sogno, avrebbe voluto aprire una lavanderia. Solo essere finalmente padrona del suo tempo. 

La mia tata si è spenta nel suo letto. Piano perché non voleva morire. Si è spenta quando ha capito che ormai le sue mani non erano più utili, quando si è resa conto di non poter più tagliare due fette di pane per regalare una merenda e un sorriso di castagne. 

Le è morto il sorriso e si è fatta piccola nel pigiama felpato d’ospedale, perché il suo posto non era fra le malattie e i malati che parlano solo del loro dolore come un naufrago può parlare dell’abbraccio di uno scoglio. 

Il suo posto era fra i bambini in un canto di fiume fra la strada e l’orto. 

Quel canto in cui sono stato solo una volta per piangere con lei un composto addio per un amore durato tutta una vita e adesso devo tornare.

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