15/06/2007
Era iniziato un altro giorno mescolato ai soliti riflessi d’ombra.
Della solita fatica di alzarsi, di guardare l’inizio dei significati nascosto nella luce del crepuscolo inverso che qualcuno chiama alba e di fingere di avere cominciato a comprenderli
Il mattino inizia lentamente, con una luce di inizio estate, una luce afosa, che invita la solitudine a chiudersi dentro l’aria condizionata.
Comincia osservando il sonno delle bambine, quel loro lento modo di accucciarsi dentro le coperte, senza chiedere nulla, ma sicure di tutto.
Continua nel chiasso, come d’un pollaio che si apre su un cartone animato, del primo treno che lo porta verso le sue lezioni.
È un accademico, se così può dire di sé.
Un accademico convinto di avere sbagliato mestiere, o di avere sbagliato il tempo del mestiere, che poi è la stessa cosa.
Sul treno, scava i lavori della assemblea costituente, con la precisione di un sarto da signori cerca le parole giuste per rammentarli ai suoi studenti.
Si accorge di avere parlato una sola volta sul treno con una persona che non conosceva in tutto il semestre. Una francese che aveva deciso di leggere il suo fumetto. Divertente. Era seduto, al solito posto: primo vagone, primo scompartimento dietro la motrice (così, dura meno, si diceva, pensando ad un incidente), il pacco dei giornali sul sedile di fronte, il computer sulle ginocchia. In cima al pacco dei giornali un fumetto di fantascienza (non riusciva a smettere di leggere fumetti. Più tempo passava dalla sua adolescenza, più si sentiva legato ai riti di quando s’era ragazzi). La sua testa era chiusa dentro al computer. La ragazza francese aveva chiesto se poteva sedersi accanto a lui. Le aveva acconsentito con il massimo grado di fredda cortesia di cui era capace. E la ragazza gli aveva chiesto se poteva prendere il suo fumetto, per poi concludere che preferiva le leggesse il giornale. Le aveva letto il giornale, un giornale attento al duello Sarkozy – Bairou, che aveva acquistato per capire qualcosa delle dimissioni di Romano Vaccarella da giudice della Corte costituzionale. La ragazza – né le aveva chiesto il nome, né si era presentato – parlava di ecologia, come di una scelta fondamentale per il futuro. Parlava della sua scelta di vivere in Toscana. Del progressivo sgretolarsi della sicurezza sociale. Del suo modo di programmare la lavatrice e delle sue scelte in materia di lampadine elettriche. Ascoltava con quella cortesia che aveva appreso da piccolo, fissando i suoi occhi, uno sguardo che avrebbe potuto essere interessante se non avesse sovrastato una dentatura straordinariamente equina, con un bisogno di dentista così triste che avrebbe potuto essere cantato da Brel. Eppure non parlava, anche se la ragazza era davvero molto gentile, non riusciva a parlarle. Sentiva che le parole erano morte dentro di lui. Continuavano ad esprimersi, naturalmente: avevano il loro suono ed a quel suono corrispondeva il loro solito significato che gli altri intendevano. Ma era dentro al suo cervello che le parole erano collassate, i lemmi del suo linguaggio avevano perso, stavano perdendo, il sentiero che li collegava alle radici materiali del pensiero, a quel cuore di immagini pulsanti di tenebra che impasta i significanti. Non sapeva dire se dipendesse dalla ragazza, da quel suo vuoto chiacchierare di cose anche importanti per passare il tempo senza leggere un giornale incomprensibile, o se fosse un cammino iniziato da tempo. Sconfisse questo timore: la sua vita era stata massicciamente impiegata nella ricerca del colore delle parole e le parole non potevano morire così all’improvviso. Fu in quel momento che si rese conto di avere incontrato la ragazza che uccideva le parole.
Niente di diverso da una persona che cammina, pensa, continua a camminare.
Incontra altre persone, le guarda, come se le fotografasse, pensa a come potrebbe raccontarle e talvolta cerca di narrare le storie che le loro andature suggeriscono.
Questa abitudine gli ricorda le parole del suo maestro, che sosteneva di sapere individuare il mestiere degli uomini osservando il loro modo di camminare.