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I girotondi di uno speaker

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/12/2007

Si è parlato molto in questi giorni delle esternazioni di Bertinotti.
Si è sottolineato che il Presidente di un ramo del Parlamento svolge una funzione imparziale, di direzione e rappresentanza di una assemblea parlamentare.
Una funzione che materializza il significato della rappresentanza parlamentare perché consente alla dialettica dei rappresentanti di trovare un ordine, uno svolgimento corretto, una lucida contrapposizione.
Si è anche detto che questa funzione è incompatibile con un ruolo politicamente attivo.
E’ una impostazione piuttosto anziana.
Si può ricordare il dialogo sulle prime esternazioni di Cossiga Presidente della Repubblica.
Anche allora si è sostenuto che il capo dello Stato non può esprimere opinioni che corrono lungo l’indirizzo politico, che sono politicamente discutibili.
Sono posizioni ingenue.
Qualsiasi magistratura svolge una funzione intimamente politica, venata di pregiudizi politici, percorsa da una inevitabile visione politica del proprio ruolo.
Il punto non è questo.
Il punto è che una maggioranza sfinita non può trovare la propria forza nella ricerca di un ragionevole equilibrio in materia di regole elettorali.
Le regole elettorali sono meccanismi matematici espressi attraverso il formalismo giuridico.
Hanno un unico scopo, che è quello di trasformare i voti in seggi.
Dal punto di vista logico, essi dovrebbero essere neutri: modi diversi per assicurare che l’emiciclo parlamentare rispecchi le opinioni del paese.
Naturalmente, anche questa sarebbe una opinione ingenua.
La verità è che le regole elettorali, come i regolamenti parlamentari, sono decisivi per la sopravvivenza delle forze politiche e dei loro cadì.
Per questa ragione, il dialogo su una riforma elettorale è un dialogo in cui i partiti politici lottano per la propria sopravvivenza, come bucanieri naufragati su un isola sperduta con un solo barilotto di rum.
E’ difficile sostenere la nobiltà di questo dialogo.
Lo scandalo non è che Bertinotti manifesti le proprie opinioni politiche, ma che una delle più alte cariche dello Stato lotti esclusivamente per la sopravvivenza della propria fazione.
Pronto a rimangiarsi le proprie sfide non appena Ingrao sfugge ai suoi inviti.

Verginello (Dietro ad ogni scemo c’è un villaggio)

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
07/12/2007

Il poveretto è sempre stato chiamato verginello.
Per un motivo molto semplice e se così si può dire onomatopeico: riusciva a barcagliare le ragazze solo per rimbalzarci come uno yo yo.
Altra caratteristica essenziale del povero verginello era l’assoluta semplicità di spirito.
Non riusciva a capire assolutamente nulla.
Così, una sera di inverno fu deciso che la sua imbecillità meritava una franchina.
Tutti conoscevano perfettamente la franchina e pareva impossibile che qualcuno non la conoscesse.
Verginello non la conosceva.
Gli fu detto che una ragazza, Valeria, che lui conosceva a mala pena, ma che era piuttosto carina, si era innamorata di lui.
Verginello si convinse subito.
Si convinse anche che Valeria aveva un padre talmente geloso che non poteva incontrarlo senza correre rischi seri.
Valeria una sera gli dette appuntamento in dei giardinetti.
Quasi in centro.
Verginello arrivò in macchina.
Pulitissima, lucida, perfetta: la macchina del babbo pronta per il primo amplesso del giovine.
Valeria salì.
Convinse verginello a lasciarle il posto di guida e a mettersi dietro: lo voleva guardare mentre guidava.
Iniziò a guidare.
Verginello si lasciò convincere a spogliarsi.
Quando fu completamente nudo, lei fermò la macchina.
Sempre in piena città.
Sempre vicino a dei giardinetti.
Scese.
Si avvicinò alla portiera.
Fece per salire.
In quel momento, il "padre" saltò fuori urlando.
Verginello si fece leone e uscì di macchina per difenderla.
Lei ed il "padre" saltarono in macchina e sgommarono via.
Verginello rimase solo e si chiuse in una cabina telefonica.
Un tipo – esistono sempre gli idioti – pensò che sarebbe stato divertente farlo uscire dalla cabina e cominciò a urlare come un ossesso.
Un altro buttò un paio di petardi modello El Alamein.
Qualche disgraziato che voleva dormire chiamò i vigili che accompagnarono il povero verginello a casa.
Nessuno lo ha più visto.

Il freddo delle acciaierie

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
07/12/2007

Per un periodo di tempo relativamente lungo, ho dormito di fronte ad una acciaieria.
La casa che mi ospitava era su una collina e di fronte, nella pianura che portava al mare, era l’acciaieria.
La notte erano fuochi che rincorrevano luci e rumori di acciai che si frangevano come onde d’altoforno.
Era un luogo che amavo.
Amavo la sua fredda inospitalità.
Perché le acciaierie, come le miniere, sono fredde, fredde di un calore che ti brucia la pelle e gli occhi.
Fredde di maglie leggere buttate sulla carne bruciata ed indossate anche nell’ombra gelida della notte.
Fredde di una luce bianca che diventa azzurra e muore arancione quando l’acciaio esce dalle siviere.
Fredde del sapore del carbon coke che ti entra nel naso e ti consuma i polmoni.
Fredde della cenere di infinite sigarette e bicchieri vuoti di caffè.
Piene di gatti, sporchi e denutriti, che si aggirano come lupi fra detriti e loppe, e cercano cibo dalle scorie d’altoforno.
Tutto questo io l’ho visto con una giacca ed una cravatta, con l’elmetto bianco della direzione.
L’ho vissuto dentro a quell’apartheid che separa gli abiti di buon taglio dagli operai, i mocassini inglesi dalle scarpe antinfortunistiche.
Ma l’ho vissuto ammirando il coraggio di gettare la propria vita dentro una macchina molto simile ad un vulcano malvagio.

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