Dorme
in un lago di orsacchiotti.
I pugni chiusi.
Abbracciata al suo angelo custode.
in un lago di orsacchiotti.
I pugni chiusi.
Abbracciata al suo angelo custode.
Quando mia nonna è nata, a Firenze non c’erano né la luce elettrica né il gas.
E’ nata in pieno centro storico, in quelle strade che hanno conosciuto la penna di Pratolini e di Palazzeschi.
Accanto a lei viveva Tanfucio Neri e ricordava il calore fumoso della sua voce.
Quando il mio bisnonno morì, erano talmente poveri che lo portarono al campo santo su una seggiola.
Il bisnonno, fra l’altro, non era il suo babbo, ma il signore che aveva accolto sua madre dopo che era stata cacciata di casa dalla suocera, per ragioni che – immagino per ragioni estetiche – non sono mai state esattamente illustrate ai nipoti.
Era una meravigliosa famiglia di anarchici.
Vecchio stampo.
Pare che il bisnonno si fosse innamorato di Bakunin da giovane, quando l’angelo nero si fermò a Firenze e fece il giro di tutte le famiglie che potevano soddisfare – gratis ma non amore dei – la sua notevole fame e la sua straordinaria sete.
Alla mia nonna, qualcuno, si dice un parente di campagna, ma non si è mai capito quale, regalò un meraviglioso cucciolo.
Uno splendido bastardino.
Intelligentissimo.
La nonna lo chiamò Gesù.
E gli insegnò a rincorrere i preti.
Si è sempre raccontato di questi poveri preti che passavano da via Pietrapiana.
Del grido dei ragazzi: "Gesù, Gesù, dagli ai preti".
Il cane naturalmente rincorreva il povero prete.
Che, altrettanto naturalmente, scappava.
Finché un anziano prelato non fu morso.
Con più forza degli altri.
O forse, colpito nella sua dignità – pare che Gesù lo avesse addentato nel culo -, prese il morso con meno carità cristiana.
Di fatto, accadde che il prelato si rivolse ai carabinieri, i carabinieri portarono la nonna dal giudice, il giudice stabilì che la nonna doveva essere educata nel pio istituto per le fanciulle pericolanti.
Arrivata a questo punto, la nonna, che finora aveva riso nel ricordare il suo cagnolino, diventava triste.
Ricordava la mattina nella quale il cancello del collegio si era chiuso davanti alla sua mamma e le suore avevano tagliato le sue treccie bionde.
Il consiglio di facoltà di oggi ha visto il preside comunicare i primi dati relativi alle immatricolazioni del primo anno.
L’aula è appena rientrata dalle vacanze: le colleghe maggiormente convinte di sé e della propria abbronzatura arrivano volutamente in ritardo, per poter ruotare intorno al tavolo della presidenza e farsi vedere mentre firmano il ruolino delle presenze.
Un immaginario defilé di anziane ragazze.
Mi chiedo anche questa volta perché sia necessario passare dal parrucchiere e dall’estetista prima di un consiglio di facoltà.
I corsi sono chiamati uno per volta.
I presidenti dei singoli corsi di laurea sudano: taluni soddisfatti, altri imbarazzati (loro sanno già i risultati).
Ciascuno sa di essere alla premiazione del campionato, a quella classica gogna che ogni casa del popolo conosce quando costringe gli allenatori dei vari bar ad ascoltare il dettaglio delle proprie sconfitte.
Le squadre – pardon, i corsi – sono illustrate: iscritti precedente anno accademico, iscritti in questo anno accademico, variazione percentuale.
Dapprima in ordine alfabetico, poi secondo il numero di iscritti, infine guardando alle variazioni percentuali.
Sorrisi, parole di apparente comprensione, tentativi di spiegare le ragioni di qualche fallimento.
La premiazione è quasi finita, quando il professor TT, che indossa i soliti occhiali scuri e tiene come sempre la camicia aperta fino all’ombelico, scende dalla spider, che ha lasciato sul posto riservato ai diversamente abili (e chi può negargli questa qualifica?), per un ingresso trionfale.
Fortunatamente sbaglia il senso di circolazione del defilé e consente al preside di dargli pubblicamente di idiota, con un “devi entrare dall’altra parte [, idiota]”, nel quale il cortese epiteto è perfettamente percepibile nei puntini di sospensione.
Anche questa volta, mi alzo prima della fine del consiglio.
Avevo esami.
Erano fissati da tempo e non credo corretto far aspettare i miei studenti.