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Anziani

9 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
18/07/2007

Quello che non sopporto di vedere sono  i miei genitori che invecchiano.
Oramai sono anziani.
Ma non riesco ad accettarlo.
Non mi sembra possibile che mio padre non sia più la persona che ha una visione esatta delle cose e che suggerisce sempre la cosa giusta da fare.
Non mi sembra possibile che mia madre non sia più la persona che mi aspetta, che mi protegge, che sa cosa voglio.
Non riesco ad accettare la loro vecchiaia.
Ed è una vecchiaia strana, come tutte le vecchiaie.
Fatta di malanni.
Di stupide discussioni con i vicini.
Del portiere che non sa più fare il portiere.
Della governante che non sa più fare la governante.
Degli amici di sempre che scompaiono.
Uno dietro l’altro.
Sicché si respira sempre quest’aria da sopravvissuti.
Cerco di rimediare.
Cerco di trattarli come se fossero ancora giovani.
Gli chiedo consiglio.
Gli parlo quietamente.
Mi sforzo di non arrabbiarmi per le loro manie.
Per il loro modo di considerarmi forte e di preferire la debolezza di mio fratello, che ha bisogno di essere protetto.
Così oggi li ho accompagnati ad un esame.
Ecografia alla prostata.
Umiliante.
Mia madre è voluta venire.
Mio padre era straordinariamente nervoso.
Quando si è operato alla prostata è stato intrattabile per molti giorni ed accettava solo la mia presenza.
Passavo le nottate accanto al suo letto, leggendo a voce bassa il Talmud.
Confidando nella forza delle parole.
E lui lentamente si calmava.
Un sudore che pian piano si asciugava.
Una sete che diveniva meno insopportabile.
Così l’ecografia di oggi per lui era una preoccupazione.
Quasi un pellegrinaggio nelle sue paure.
Un pellegrinaggio nel quale mi sento in dovere di essergli accanto.
La sala di aspetto era la solita bolgia.
Persone che cercano di bere per riempire la vescica e spingerla contro la prostata.
E nessuno che riesce a sentire lo stimolo della pipi.
Mio padre sempre più nervoso.
Mille volte guarda i fogli della visita.
Il fascicolo degli esami fatti.
La prenotazione.
Mi spedisce in accettazione.
Mi fa cercare l’amico primario.
Mia madre recita il mantra dei tempi passati.
Alla fine siamo riusciti a tornare.
Nel caldo della macchina senza aria condizionata.
Mia madre continuava a spiegare i negozi che sono scomparsi.
Nel silenzio.
Mio padre non riusciva a parlare.
Finché non sono riuscito a chiedergli come si sentiva.
Ed ha cominciato a piangere.
Non riesco a vederlo piangere.
Sono rimasto con lui.
Ho rinviato tutto.
Lo ho accompagnato a fare una piccola passeggiata.
Ho cercato di farlo uscire dal suo mondo dentro una libreria.
Adesso spero stia leggendo.
Spero.

Una separazione

18 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
17/07/2007

Non faccio mai l’avvocato.
Soprattutto non mi piace.
Non sopporto di entrare nei fatti degli altri.
Non tollero ricercare torti e ragioni.
Eppure qualche volta ci sono costretto.
Come oggi.
Stamane mi è toccato di accompagnare un mio amico nella causa di separazione dalla moglie.
Il tribunale è un insieme di corridoi vuoti.
Abitati dal caldo e da strani ed azzimati caimani.
Dal disordine dei fascicoli.
Dal dolore delle storie chiuse nei fascicoli.
Battute a macchina, con la distrazione di una dattilografa che non riesce a piangere dinanzi al dolore che le sue dita pigiano nella tastiera.
Il mio amico – potrebbe chiamarsi N – era disperato.
La moglie ha  un altro.
Glielo ha detto da molto tempo.
Ma non riesce a darsene pace.
Il corridoio lo ha guardato a lungo mentre aspettava.
La testa fra le mani.
Le mani dentro la testa.
La moglie lo guardava con pietà.
Come si guarda un uomo che non sa vivere il proprio dolore senza farlo vedere.
Come si guarda un disgraziato con gli occhiali da sole per sopportare la penombra.
Il giudice lo ha guardato a lungo.
Ha chiesto se voleva separarsi.
N ha risposto di no.
Che per lui era tutto a posto, anche se sua moglie aveva un altro.
Che avrebbe aspettato.
Che non c’erano problemi.
Il giudice ha detto che i problemi c’erano.
Perché se lui non voleva separarsi la separazione non poteva essere consensuale.
Allora lui ha risposto che si, voleva separarsi ed ha cominciato a piangere.
Come un bambino stanco che non riesce a dormire.
Con la stessa disperazione quasi assoluta.
E queste lacrime, sul suo vestito, che era il vestito del matrimonio, mi sono rimaste appiccicate addosso.
Mentre guardavo l’avvocato della moglie.
Una donna, vestita di bianco, perfetta per Forte dei Marmi.
L’aria un pò trascorsa.
Le caramelle di chi non riesce a non fumare.
L’abbronzatura che serve per poter portare un abito  bianco.
E mi sono chiesto – mi continuo a chiedere – come possa vivere di questo dolore.
Come possa vivere ogni sua giornata rincorrendo l’angoscia di amori che finiscono.
Di figli che entrambi i genitori vogliono.
Di cose che logorano il tuo corpo e non solo il tuo spirito.
Adesso torno alle mie pagine, alle mie riflessioni sulla dimensione costituzionale della proprietà.
Lontano.
Più lontano.
Da tutto questo.
E non riesco a non pensare che non sia umano abituarsi a quelle stanze, fare di mestiere quello che ho fatto per un amico, che non avrei mai fatto se N non fosse un amico, se non avessi ritenuto mio dovere accompagnarlo.
Se non avessi pensato che era necessario.
Umanamente necessario.
Però in fondo dovrebbe essere questo il mestiere dell’avvocato: essere amico di chi non ha amici ed accompagnarlo in un viaggio dentro alla propria miseria.
Forse.
Magari.
Ma non lo so.

Il terapista

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
11/07/2007

Stamani, come tutte le settimane sono andato dal medico della mia schiena.
E’ una schiena strana che ha bisogno di cure e di affetto, perché vuole diventare una canna di bamboo.
All’inizio questa cosa mi ha molto disturbato.
Poi ho capito che potevo sfruttarla.
E’ comodo poter dire ho mal di schiena e tagliare ogni discorso.
Soprattutto, è educativo, nel senso che educa lo spirito, essere costretto a fare ginnastica tutti i giorni, a prestare attenzione al mio corpo, a ascoltare i suoi messaggi.
Mi accompagna in questo viaggio interiore, in questo pellegrinaggio, il terapeuta.
Il terapeuta ha circa cinquanta anni.
Inizia a lavorare alle sei del mattino.
Siamo lentamente diventati amici.
Così sono diventato amico della sua sala di attesa.
I visi di una sala di attesa parlano continuamente.
Siamo quasi tutti malati cronici.
Ed ognuno reagisce in maniera diversa.
Tipicamente mi siedo con il computer in grembo e cerco di programmare la giornata di Ical.
Nel frattempo, osservo al di sopra dello schermo.
Lo schermo come una linea di ombra che mi separa dagli altri.
Stamane c’era una coppia che doveva decidere la terapia.
Nervosismo.
Tensione.
Sudore.
La malattia che non è ancora diventata una dolce compagna di viaggio.
Un modo per scoprire la propria capacità di vivere.
Mi hanno ricordato i primi giorni del mio male.
Quando ho scoperto che non si poteva curare e non lo accettavo.
Ho bruciato un amore su questa sensazione fredda di impotenza.
Non potevo amare se non ero capace di guarire.
Ho costruito – poi – due figlie sulla capacità di sopravvivere ad un dolore sordo e costante.
E ne sono felice.

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