Tramonto di Venere
È angoscia senza amnistia.
Solitudine di sommerso silenzio.
Inquietudine di inquisizione.
Rimpiango il rimorso.
È angoscia senza amnistia.
Solitudine di sommerso silenzio.
Inquietudine di inquisizione.
Rimpiango il rimorso.
La cortigiana conosce le ombre e sa essere bella nell’ombra.
Lo sa perché sa come si vive nell’ombra.
L’ombra è un vino che separa la luce dal sogno e lei sa essere sogno quando non c’è luce ad illuminare la realtà.
Lo sa e lo odia.
Odia se stessa.
Odia l’ombra perché odia i sogni che scompaiono alla luce.
Odia la luce perché odia i sogni che non sono fatti di ombra, perché invade l’ombra distruggendo i sogni.
Pensa anche a questo la cortigiana mentre riprende il suo cammino. Non basta l’esperienza a dimenticare tutte le ombre in cui si è vissuti e a desiderarne una nuova capace di dimenticare ancora.
L’ombra è un vino che divora l’anima, che abitua a dimenticare, a vomitare tutto ciò che si è inghiottito solo per tornare a inghiottire, è il vino del barbone: una coperta di sogni che separa la mente dalla coperta di vomito e piscio in cui muore assiderato dall’indifferenza della luce.
Ogni volta che la cortigiana riprende il cammino, che ritrova la perfezione dei propri riccioli, l’arroganza intangibile dei suoi seni, la sottile timidezza delle sue caviglie e pensa alle ombre cui di nuovo si offrirà, sentendosi libera di ogni catena e sogno, vede l’illusione di un mondo senza ombre, l’unico nel quale potrebbe davvero vivere e uno dei tanti da cui è stata di nuovo vomitata.
In quei momenti, i suoi occhi vedono la Provenza di Cezanne ma, come Cezanne, Gauguin, o Utrillo, sa che il suo mondo non è quello. E’ la notte di Montparnasse impastata da un tubetto di colore spremuto da Soutine con gli inganni delle nebbie di Montmartre.
E scompare negli abissi di tutte le ombre che altri ha vomitato nella generosa avidità del suo animo.
La più falsa immagine dell’amore è un bambino al seno,
quel bambino è egoismo soddisfatto: tutto dipende da quello che non si ha il coraggio di pensare possa diventare abbandono.
Non è nemmeno un ricordo, non si ricorda il sapore del latte materno.
E’ una paura, la paura di poter dipendere ancora completamente da una persona, dal suo cuore,
una consapevolezza, la consapevolezza che una madre non pensa sempre al figlio. Che spesso si sente morire nel suo sguardo. Che può pensare che lui le stia rubando la vita. Ma non glielo dice. Finge di amarlo. Il suo amore è menzogna per non fare male con una verità troppo grande per il suo bambino, e quel bambino è più solo della solitudine perché la mano che stringe non pensa a lui, prova compassione solo per se stessa con pura crudeltà di madre,
eppure si cresce nel rimpianto dell’egoismo soddisfatto, è una malaria dell’anima, quell’abbandono che genera la pietà della menzogna.
Niente è più lontano dall’amore dell’istinto che si abbarbica alla speranza di una fiducia capace di sconfiggere la paura del buio, di quella notte che incombe in ogni goccia di pioggia, di quella voglia di travestire la paura che è mestiere di vivere.
Ma uno dei tanti sarcasmi della felicità è che le menzogne sono un cibo che svezza dal bisogno di speranza.