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Tag Archive for: amori finiti

L’afa di scirocco

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
26/07/2020

Non afa di tramontana, freddo cono

o di maestrale, ipocrita piramide,

di ponente, stolido cubo,

di libeccio, vischiosa sfera, levante, astuto parallelepipedo

E’ patina di sudore che una borraccia di gin lascia sull’epidermide di un funebre pomeriggio

Ciascun vento lascia nella bonaccia l’impronta della sua morte

L’annusano inquieti silenti marinai, vi conoscono le storie di naufragi e sirene, destini divergenti, nostalgie perverse di inclinata ignominia

Perché in quel camminare di patibolo che ha il marinaio in terraferma c’è l’allegria delle burrasche passate e la nostalgia di quelle future.

Si muore bene solo in mare.

La fortuna di Violetta è la tisi

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
21/07/2020

Non c’è troia capace di risalire a lungo dall’inferno

Proprio non c’è

La signora delle Camelie, Violetta, Esther – la meravigliosa e piccola Esther di Balzac – sono tutte invenzioni da romanzo

Alla fine e nella realtà, torna sempre un’arsura di stupro che solo le rughe malcelate di un viso a luna piena

Le braccia con i primi segni di grinze

I glutei che cedono alla ferocia degli anni

I seni stanchi di bisturi

Le caviglie idropiche

Le gambe accavallate e scavallate con la grazia di uno specchio infranto

I piedi che è pietà distrarsi

possono, forse, cancellare.

Anzi, trasformare in nostalgia.

E’ inutile cercare sperando in quello che non c’è.

Perché non c’è niente quando si ignora che

volo di pigolanti passeri è la vecchiaia

Quando non ci si rende conto che l’amore che ama quelle braccia, quei glutei, quei seni, quelle caviglie, quelle gambe, quei piedi ignora l’arsura dello stupro, l’ansia dell’orgasmo.

La signora delle camelie non può risalire a lungo dall’inferno

La signora delle camelie, Violetta, Esther, come la si vuol chiamare, resterà sempre una troia

La sua fortuna è morire di tisi prima che il suo destino diventi un romanzo gotico pensando di essere ancora una novella erotica.

Ma questo è il romanzo, la vita si sa è sempre più grottesca.

Case di sabbia

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
07/07/2020

Le parole sono case di sabbia.

Si consumano di attese.

Diventano nulla.

Rubate dal silenzio in cui sono cadute troppe volte.

Ogni volta facendosi più male.

Il ritorno di Casanova

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
04/07/2020

Quello che Schnitzler non ha scritto, prima di morire nei suoi cinquantasei anni passati a spengere la candela della propria fantasia, è che Casanova si era ferocemente innamorato di quella ragazza conosciuta in una notte palladiana e rapita all’amore di un giovane ufficiale, talmente giovane da non sapere che le lame invecchiando diventano letali perché hanno conosciuto troppe volte la morte per non sapere che è vicina, che il suo alito marcio di denti cariati soffia più forte di un pianto neonato.

Se ne era ferocemente innamorato come si può innamorare solo un vecchio che conosce i segreti della scherma, che sa duellare e ascoltare l’eleganza barocca della musica, ma che soprattutto ha passato la propria vita a indagare il significato dell’amore, scoprendo presto che non ha niente a che fare con il possesso di due gambe che si aprono e di due natiche divaricate o di una gola avida di sperma.

Ci era voluto tutto questo, tutte le colombine che Casanova aveva rapito e amato, posseduto e abbandonato, tutti i piombi che aveva indossato con pigrizia di forzato per scoprire il significato dell’amore nella penombra palladiana delle candele attorno a un gioco di carte.

L’amore è il dolore di uno che ama volendo essere il marito della donna che ama. Volendo che il suo viso sia lo sguardo dei propri figli.

Nè sesso, né conversazioni, ma desiderio di un viso che è lo sguardo dei propri figli.

Casanova lo capì in quella notte di penombra, carte e duelli e l’amò senza mestiere, con indulgenza e stanchezza, non ne cercò l’ammirazione, non ne provocò l’orgasmo che squassa i sensi e che trasforma le parole in terremoti. Le regalò la propria ingenua verginità e pensò per qualche infinito battito di ciglia che fosse abbastanza, che lei non avrebbe potuto non amare chi l’amava volendo che il suo viso fosse sguardo di figli.

Si sbagliava e lo capì Casanova nello sguardo di disgusto con cui lei lo fissò quando la luce le rivelò di avere fatto l’amore con un vecchio e non con un giovane ufficiale, non col giovane ufficiale che Casanova aveva provocato e ingannato, ucciso e disprezzato.

E fu un dolore assoluto, il dolore che trasforma l’amore in nostalgia, vigliaccheria e irrazionalità.

L’ intelligenza dell’impossibile è dolore di infarto.

Il dolore di un cuore che si spezza quando sa che è impossibile che il viso amato sia lo sguardo di un figlio voluto.

Profanazione: tutto ciò che non sarà mai più come prima

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
01/07/2020

Il pudore è l’ansiosa e impaziente vergogna di una vergine

Imbarazzo segretamente consapevole che nulla sarà mai più come prima quando altri la toccherà sapendo che non sarà per sempre sua

Perché in quella vergogna ansiosa e impaziente è inutile cercare quello che non c’è

Il dono di un segreto. Il segreto che i ragazzi sussurrano sghignazzando dopo aver preso quello non vogliono sia altro che selvaggina da divorare nel baccano d’una orgia

Le donne sono malaffare. Per tutti. Non solo per il loro re, il signore dio della loro vergogna

Se non è così, così che è normale, se l’uno ha rubato una vergogna d’altri e l’altra è evasa dalla sua gabbia donandone le chiavi a chi passava per caso, per farsi rapinare di una solitudine troppo rumorosa per essere contenuta dentro quattro sbarre per fragili uccelli esperti della solitudine del migrante che sa di trovare nel volo l’attimo in cui stremarsi e sfracellare,

Se non è così, così che è normale, allora che cosa resta?

Resta la profanazione, la libertà dei vichinghi. Di rapinare quello che non si capisce. Trasformare la fede in tortura. Sapendo che l’unico modo di possedere ciò che è d’altri è il disprezzo.

Quel disprezzo che diventa amara libertà per la vergine che ha donato le chiavi della sua gabbia e dolore d’infarto per colui che ha visto la tenace crudeltà vichinga strappare le sue palpebre perché nessun oltraggio conoscesse un oblio d’ombra.

Gli spettri di Itaca

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/06/2020

Le unghie si spezzano se le mani costruiscono qualcosa che non esiste, qualcosa che Penelope disfa mentre tu, il più inutile dei suoi corteggiatori, continui a cercare i suoi sogni e la sua pace.

Non puoi trovare la pace di una donna che ti guarda sognando un uomo in viaggio.

Non sei tu la sua pace, non sei tu i suoi sogni. Tu sei ciò che è casa quando la casa è vuota.

Lo sai, lo sai benissimo e sai anche che il tuo viaggio dovrebbe riprendere, non può essere fatto di parole che offendono l’intelligenza, di risposte che non hanno letto la sostanza del tuo cuore, che lo calpestano senza comprendere, senza che tu meriti di essere compreso.

Non ci sono lacrime negli occhi di Penelope quando Ulisse imbraccia il suo arco. C’è una sorda gioia che segue il percorso delle frecce che ti trafiggono. Tu la vedi quella sorda gioia. Ti trafigge prime delle frecce.

E resti in quella reggia perché il tuo cuore è diventato lo spettro di tutto quello che aveva sognato e indossa le sue catene sperando di non svegliare Penelope mentre dorme accanto al suo Ulisse, senza che tu sia mai stato veramente un suo pensiero.

Il fantasma di Anna Bolena

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
18/06/2020

Anna Bolena era una troia, non una troia da baraccone, ma una troia reale. Magari non era nemmeno troppo troia, magari non scopava con il fratello, il musico e il pirata, magari era solo una rompicoglioni ma il suo re decise che era una troia perché l’amava teneramente, profondamente, ingenuamente.

Anna Bolena aveva un amante, magari non ce l’aveva, ma il suo re decise che aveva un amante e che questo amante era un vichingo, che fosse il fratello, il musico o il pirata, chiunque di questi fosse, o fossero anche tutti e tre insieme, in ogni caso l’amante di Anna Bolena era un vichingo e la scopava come un vichingo prosciugandola e dissentandosi. Prosciugandosi e dissetandola.

Abbastanza per un processo: un re non si tradisce.

Abbastanza per una condanna a morte: un re non si tradisce con un vichingo.

Anna Bolena era una troia elegante e indossò il suo abito da sposa per il boia che l’avrebbe prosciugata senza dissetarsi, era un francese e non un vichingo. Provò la testa sul ceppo nella notte prima della esecuzione. Se si tradisce un re, si deve saper morire da regine, anche se il re non si è tradito, anche se il sesso con il vichingo, fratello, musico e pirata era un’invenzione di corte.

Anna Bolena era una troia piangente, capace di fuggire dagli Yeomen che la scortavano per spezzarsi le dita contro il granito della porta dietro alla quale Enrico pregava, perché i re pregano e gli dei hanno sempre belle parole per chi sa che cosa devono dire, ma non hanno orecchie per ascoltare chi gli chiede frasi che solo loro possono pronunciare.

Anna Bolena adesso è solo il fantasma di un’opera per abiti da sera e vernissage eleganti, ma a lungo è stata il fantasma dell’uomo che aveva tradito o che non aveva tradito, poco importa a una testa che rotola dal corpo. Quell’uomo che si era convinto che lei scopasse con un vichingo mentre lui l’amava teneramente. Che si era sentito umiliato dal fratello, musico e corsaro, dal loro dissetarsi dissetando, prosciugare prosciugandosi. Come si può sentire defraudato un amore tenero da un amore selvaggio, quasi un teorema per Sanremo. Ma non era così: le donna che si dissetano prosciugandosi, che non si fermano alla prima fonte che trovano lungo il sentiero, che cercano il sapore di tutte le bottiglie che un sommelier può aprire durante un’orgia, non vogliono tenerezza. La tenerezza chiede comprensione, la dolcezza vuole perdonare, l’amore chiede amore. Vogliono uno che si sappia prosciugare come loro, che sappia far male. Perché non ci sarà bisogno di comprensione, dolcezza o amore per bere a un’altra fonte e tornare a dissetarsi del fratello, musico, pirata. Non ci sarà bisogno di niente. Solo di una festa in maschera.

Questo Enrico non lo aveva capito. Per lui, era solo una troia. La troia di un re. Il fantasma di un re. Perché quando un re ama una troia e la troia muore, il fantasma di quell’amore resta. Non basta la dignità a scacciare i fantasmi. Non basta sapere che la sete di chi sa dissetare prosciugandosi è inesauribile. Che chi non nasce vichingo non lo diventa neppure se sposa Freya.

Ogni addio genera un fantasma e quel fantasma ripete, ogni notte, con la testa sotto il braccio, E’ inutile cercare quello che non esiste. E’ inutile, Anna, cercare un vichingo. E’ inutile, Enrico, cercare una sposa. Si trovano solo fantasmi e, in questa storia, i fantasmi si dissetano prosciugando.

I diosperi non sono lontani dai gelsomini

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
14/06/2020

L’ultimo amore è un diospero che cade quando il gelo vince sull’incoscienza che regala il frutto più dolce in quei giorni vicini alla notte, troppo vicini alla notte per credere ancora nella primavera

Il primo amore è un gelsomino che improvvisamente decide di fiorire quando la primavera allunga le sue dita sull’anima e il mattino è una luce che non conosce inverni

I diosperi e i gelsomini decidono il momento di fiorire e di dare frutti. Ciascun diospero, ciascun gelsomino lo decide. Chi prima, chi dopo. Ciascun uomo e ciascuna donna

Fioriscono e danno frutti quando pensano, con il pensiero lento delle cose animate, che il mondo potrebbe essere loro, che i colori dei loro frutti e i profumi dei loro fiori possono disegnare il mondo e il mondo può essere felice di essere disegnato così

Si sbagliano, si sbagliano sempre: il mondo, dopo qualche giorno, ritorna quello che era, fa a meno di loro e li dimentica

Così sono gli amori sbagliati, quelli che non ci possono permettere, quelli che finiscono in un aborto, fiori dimenticati, frutti calpestati

E si chiede perdono, non per non aver visto il disegno del mondo, non per aver pensato di cambiarlo, ma per non esserne stati capaci.

Per non essere riusciti con il profumo di un fiore e la dolcezza di un frutto e donare il sollievo di un istante, il desiderio di un giardino incantato e si biforcano i sentieri, senza dimenticare, ma solo calpestando quei fiori e quei frutti, con la rabbia sorda di un pellegrino che sa di avere sbagliato sentiero ma non riesce a smettere perché è più facile dimenticare un santo che ammettere di aver smarrito la strada.

La lettera scarlatta

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
30/05/2020

La signora dalle scarpe gialle ha trovato una lettera scarlatta in fondo al suo cuore.

Facile ludibrio bigotto.

Lontano dalla verità che è altrettanto bigotta ma meno banale del verosimile.

La signora dalle scarpe gialle sa che il verosimile, non la verità, assomiglia all’edera.

Cresce, si arrampica, abbraccia fino a soffocare.

Non c’è amore nell’abbraccio dell’edera.

Non c’è amore nella crudeltà banale delle presunzioni.

La signora dalle scarpe gialle lo sa perfettamente e stringe i propri cerotti per camminare come se non provasse dolore.

Sa che nessun albero si può liberare dall’edera senza la compassione di un giardiniere.

Non è facile essere i giardinieri di se stessi e gli alberi, in fondo, amano l’edera che li soffoca rivestendoli di una parvenza di foglie, vogliono morire dentro quelle foglie che li rendono belli e li fanno soffrire.

E’ la storia della lettera scarlatta, anche se forse Nathaniel Hawthorne la vedeva diversamente, con il suo romanticismo un po’ gotico e provinciale, il romanticismo di un doganiere.

Geroglifici e scarpe gialle

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
26/05/2020

 

Erano parole le scarpe gialle.

Parole che stavano in un bagagliaio.

Ben nascoste.

Più false di una moneta d’argento nella bocca di un poeta ebreo.

Dal loro nascondiglio, permettevano ad altre parole di sgorgare. Parole senza tacchi. Parole innocenti. Parole che parlavano di giardini dai sentieri che si biforcano e di biblioteche senza fine, dai corridoio appena illuminati dalla luce fredda delle miniature.

Ma le scarpe gialle non possono restare nascoste a lungo.

Le scarpe gialle hanno bisogno di tornare ai piedi di chi le sa indossare e la regina delle scarpe gialle le ha messe di nuovo. Non ha neppure aspettato che le sue ferite rimarginassero. Ha cercato il dolore. Suo, di altri. Non importa.

Sono troppo belle le scarpe gialle per lasciarle dentro un bagagliaio e la regina ha ripreso il suo cammino, stretto i cerotti intorno alle dita, ingoiato il dolore e indossato il sorriso con cui Elena osservava Paride e rammentava Menalao.

Ora che le scarpe gialle sono tornate al loro posto, anche le parole sono tornate geroglifici.

Parole scritte per non essere lette. Ma non per essere dimenticate, Come poesie cucite nel cappotto di un poeta ebreo in una fredda anticamera di morte apparecchiata dal montanaro del Cremlino.

Nessun perdono può essere dimenticanza.

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