Le parole sono case di sabbia.
Si consumano di attese.
Diventano nulla.
Rubate dal silenzio in cui sono cadute troppe volte.
Ogni volta facendosi più male.
Quello che Schnitzler non ha scritto, prima di morire nei suoi cinquantasei anni passati a spengere la candela della propria fantasia, è che Casanova si era ferocemente innamorato di quella ragazza conosciuta in una notte palladiana e rapita all’amore di un giovane ufficiale, talmente giovane da non sapere che le lame invecchiando diventano letali perché hanno conosciuto troppe volte la morte per non sapere che è vicina, che il suo alito marcio di denti cariati soffia più forte di un pianto neonato.
Se ne era ferocemente innamorato come si può innamorare solo un vecchio che conosce i segreti della scherma, che sa duellare e ascoltare l’eleganza barocca della musica, ma che soprattutto ha passato la propria vita a indagare il significato dell’amore, scoprendo presto che non ha niente a che fare con il possesso di due gambe che si aprono e di due natiche divaricate o di una gola avida di sperma.
Ci era voluto tutto questo, tutte le colombine che Casanova aveva rapito e amato, posseduto e abbandonato, tutti i piombi che aveva indossato con pigrizia di forzato per scoprire il significato dell’amore nella penombra palladiana delle candele attorno a un gioco di carte.
L’amore è il dolore di uno che ama volendo essere il marito della donna che ama. Volendo che il suo viso sia lo sguardo dei propri figli.
Nè sesso, né conversazioni, ma desiderio di un viso che è lo sguardo dei propri figli.
Casanova lo capì in quella notte di penombra, carte e duelli e l’amò senza mestiere, con indulgenza e stanchezza, non ne cercò l’ammirazione, non ne provocò l’orgasmo che squassa i sensi e che trasforma le parole in terremoti. Le regalò la propria ingenua verginità e pensò per qualche infinito battito di ciglia che fosse abbastanza, che lei non avrebbe potuto non amare chi l’amava volendo che il suo viso fosse sguardo di figli.
Si sbagliava e lo capì Casanova nello sguardo di disgusto con cui lei lo fissò quando la luce le rivelò di avere fatto l’amore con un vecchio e non con un giovane ufficiale, non col giovane ufficiale che Casanova aveva provocato e ingannato, ucciso e disprezzato.
E fu un dolore assoluto, il dolore che trasforma l’amore in nostalgia, vigliaccheria e irrazionalità.
L’ intelligenza dell’impossibile è dolore di infarto.
Il dolore di un cuore che si spezza quando sa che è impossibile che il viso amato sia lo sguardo di un figlio voluto.
Il pudore è l’ansiosa e impaziente vergogna di una vergine
Imbarazzo segretamente consapevole che nulla sarà mai più come prima quando altri la toccherà sapendo che non sarà per sempre sua
Perché in quella vergogna ansiosa e impaziente è inutile cercare quello che non c’è
Il dono di un segreto. Il segreto che i ragazzi sussurrano sghignazzando dopo aver preso quello non vogliono sia altro che selvaggina da divorare nel baccano d’una orgia
Le donne sono malaffare. Per tutti. Non solo per il loro re, il signore dio della loro vergogna
Se non è così, così che è normale, se l’uno ha rubato una vergogna d’altri e l’altra è evasa dalla sua gabbia donandone le chiavi a chi passava per caso, per farsi rapinare di una solitudine troppo rumorosa per essere contenuta dentro quattro sbarre per fragili uccelli esperti della solitudine del migrante che sa di trovare nel volo l’attimo in cui stremarsi e sfracellare,
Se non è così, così che è normale, allora che cosa resta?
Resta la profanazione, la libertà dei vichinghi. Di rapinare quello che non si capisce. Trasformare la fede in tortura. Sapendo che l’unico modo di possedere ciò che è d’altri è il disprezzo.
Quel disprezzo che diventa amara libertà per la vergine che ha donato le chiavi della sua gabbia e dolore d’infarto per colui che ha visto la tenace crudeltà vichinga strappare le sue palpebre perché nessun oltraggio conoscesse un oblio d’ombra.
Le unghie si spezzano se le mani costruiscono qualcosa che non esiste, qualcosa che Penelope disfa mentre tu, il più inutile dei suoi corteggiatori, continui a cercare i suoi sogni e la sua pace.
Non puoi trovare la pace di una donna che ti guarda sognando un uomo in viaggio.
Non sei tu la sua pace, non sei tu i suoi sogni. Tu sei ciò che è casa quando la casa è vuota.
Lo sai, lo sai benissimo e sai anche che il tuo viaggio dovrebbe riprendere, non può essere fatto di parole che offendono l’intelligenza, di risposte che non hanno letto la sostanza del tuo cuore, che lo calpestano senza comprendere, senza che tu meriti di essere compreso.
Non ci sono lacrime negli occhi di Penelope quando Ulisse imbraccia il suo arco. C’è una sorda gioia che segue il percorso delle frecce che ti trafiggono. Tu la vedi quella sorda gioia. Ti trafigge prime delle frecce.
E resti in quella reggia perché il tuo cuore è diventato lo spettro di tutto quello che aveva sognato e indossa le sue catene sperando di non svegliare Penelope mentre dorme accanto al suo Ulisse, senza che tu sia mai stato veramente un suo pensiero.
Anna Bolena era una troia, non una troia da baraccone, ma una troia reale. Magari non era nemmeno troppo troia, magari non scopava con il fratello, il musico e il pirata, magari era solo una rompicoglioni ma il suo re decise che era una troia perché l’amava teneramente, profondamente, ingenuamente.
Anna Bolena aveva un amante, magari non ce l’aveva, ma il suo re decise che aveva un amante e che questo amante era un vichingo, che fosse il fratello, il musico o il pirata, chiunque di questi fosse, o fossero anche tutti e tre insieme, in ogni caso l’amante di Anna Bolena era un vichingo e la scopava come un vichingo prosciugandola e dissentandosi. Prosciugandosi e dissetandola.
Abbastanza per un processo: un re non si tradisce.
Abbastanza per una condanna a morte: un re non si tradisce con un vichingo.
Anna Bolena era una troia elegante e indossò il suo abito da sposa per il boia che l’avrebbe prosciugata senza dissetarsi, era un francese e non un vichingo. Provò la testa sul ceppo nella notte prima della esecuzione. Se si tradisce un re, si deve saper morire da regine, anche se il re non si è tradito, anche se il sesso con il vichingo, fratello, musico e pirata era un’invenzione di corte.
Anna Bolena era una troia piangente, capace di fuggire dagli Yeomen che la scortavano per spezzarsi le dita contro il granito della porta dietro alla quale Enrico pregava, perché i re pregano e gli dei hanno sempre belle parole per chi sa che cosa devono dire, ma non hanno orecchie per ascoltare chi gli chiede frasi che solo loro possono pronunciare.
Anna Bolena adesso è solo il fantasma di un’opera per abiti da sera e vernissage eleganti, ma a lungo è stata il fantasma dell’uomo che aveva tradito o che non aveva tradito, poco importa a una testa che rotola dal corpo. Quell’uomo che si era convinto che lei scopasse con un vichingo mentre lui l’amava teneramente. Che si era sentito umiliato dal fratello, musico e corsaro, dal loro dissetarsi dissetando, prosciugare prosciugandosi. Come si può sentire defraudato un amore tenero da un amore selvaggio, quasi un teorema per Sanremo. Ma non era così: le donna che si dissetano prosciugandosi, che non si fermano alla prima fonte che trovano lungo il sentiero, che cercano il sapore di tutte le bottiglie che un sommelier può aprire durante un’orgia, non vogliono tenerezza. La tenerezza chiede comprensione, la dolcezza vuole perdonare, l’amore chiede amore. Vogliono uno che si sappia prosciugare come loro, che sappia far male. Perché non ci sarà bisogno di comprensione, dolcezza o amore per bere a un’altra fonte e tornare a dissetarsi del fratello, musico, pirata. Non ci sarà bisogno di niente. Solo di una festa in maschera.
Questo Enrico non lo aveva capito. Per lui, era solo una troia. La troia di un re. Il fantasma di un re. Perché quando un re ama una troia e la troia muore, il fantasma di quell’amore resta. Non basta la dignità a scacciare i fantasmi. Non basta sapere che la sete di chi sa dissetare prosciugandosi è inesauribile. Che chi non nasce vichingo non lo diventa neppure se sposa Freya.
Ogni addio genera un fantasma e quel fantasma ripete, ogni notte, con la testa sotto il braccio, E’ inutile cercare quello che non esiste. E’ inutile, Anna, cercare un vichingo. E’ inutile, Enrico, cercare una sposa. Si trovano solo fantasmi e, in questa storia, i fantasmi si dissetano prosciugando.
L’ultimo amore è un diospero che cade quando il gelo vince sull’incoscienza che regala il frutto più dolce in quei giorni vicini alla notte, troppo vicini alla notte per credere ancora nella primavera
Il primo amore è un gelsomino che improvvisamente decide di fiorire quando la primavera allunga le sue dita sull’anima e il mattino è una luce che non conosce inverni
I diosperi e i gelsomini decidono il momento di fiorire e di dare frutti. Ciascun diospero, ciascun gelsomino lo decide. Chi prima, chi dopo. Ciascun uomo e ciascuna donna
Fioriscono e danno frutti quando pensano, con il pensiero lento delle cose animate, che il mondo potrebbe essere loro, che i colori dei loro frutti e i profumi dei loro fiori possono disegnare il mondo e il mondo può essere felice di essere disegnato così
Si sbagliano, si sbagliano sempre: il mondo, dopo qualche giorno, ritorna quello che era, fa a meno di loro e li dimentica
Così sono gli amori sbagliati, quelli che non ci possono permettere, quelli che finiscono in un aborto, fiori dimenticati, frutti calpestati
E si chiede perdono, non per non aver visto il disegno del mondo, non per aver pensato di cambiarlo, ma per non esserne stati capaci.
Per non essere riusciti con il profumo di un fiore e la dolcezza di un frutto e donare il sollievo di un istante, il desiderio di un giardino incantato e si biforcano i sentieri, senza dimenticare, ma solo calpestando quei fiori e quei frutti, con la rabbia sorda di un pellegrino che sa di avere sbagliato sentiero ma non riesce a smettere perché è più facile dimenticare un santo che ammettere di aver smarrito la strada.
La signora dalle scarpe gialle ha trovato una lettera scarlatta in fondo al suo cuore.
Facile ludibrio bigotto.
Lontano dalla verità che è altrettanto bigotta ma meno banale del verosimile.
La signora dalle scarpe gialle sa che il verosimile, non la verità, assomiglia all’edera.
Cresce, si arrampica, abbraccia fino a soffocare.
Non c’è amore nell’abbraccio dell’edera.
Non c’è amore nella crudeltà banale delle presunzioni.
La signora dalle scarpe gialle lo sa perfettamente e stringe i propri cerotti per camminare come se non provasse dolore.
Sa che nessun albero si può liberare dall’edera senza la compassione di un giardiniere.
Non è facile essere i giardinieri di se stessi e gli alberi, in fondo, amano l’edera che li soffoca rivestendoli di una parvenza di foglie, vogliono morire dentro quelle foglie che li rendono belli e li fanno soffrire.
E’ la storia della lettera scarlatta, anche se forse Nathaniel Hawthorne la vedeva diversamente, con il suo romanticismo un po’ gotico e provinciale, il romanticismo di un doganiere.
Erano parole le scarpe gialle.
Parole che stavano in un bagagliaio.
Ben nascoste.
Più false di una moneta d’argento nella bocca di un poeta ebreo.
Dal loro nascondiglio, permettevano ad altre parole di sgorgare. Parole senza tacchi. Parole innocenti. Parole che parlavano di giardini dai sentieri che si biforcano e di biblioteche senza fine, dai corridoio appena illuminati dalla luce fredda delle miniature.
Ma le scarpe gialle non possono restare nascoste a lungo.
Le scarpe gialle hanno bisogno di tornare ai piedi di chi le sa indossare e la regina delle scarpe gialle le ha messe di nuovo. Non ha neppure aspettato che le sue ferite rimarginassero. Ha cercato il dolore. Suo, di altri. Non importa.
Sono troppo belle le scarpe gialle per lasciarle dentro un bagagliaio e la regina ha ripreso il suo cammino, stretto i cerotti intorno alle dita, ingoiato il dolore e indossato il sorriso con cui Elena osservava Paride e rammentava Menalao.
Ora che le scarpe gialle sono tornate al loro posto, anche le parole sono tornate geroglifici.
Parole scritte per non essere lette. Ma non per essere dimenticate, Come poesie cucite nel cappotto di un poeta ebreo in una fredda anticamera di morte apparecchiata dal montanaro del Cremlino.
Nessun perdono può essere dimenticanza.
Anziani in fila per il pane. La mascherina calcata sul viso. Occhi soddisfatti: non sono più i soli a essere chiusi in casa. Tutti vivono come loro.
Non c’è festa in chi esce, c’è quella mestizia dell’ora d’aria in carcere, quando il passeggiare è consapevolezza di ciò che è proibito dal peso delle proprie colpe.
La casa è un modo diverso di lavorare, lontano dalle cose e dalle persone, le lezioni sono parole a un monitor e c’è una lentezza terribile in tutto.
Ci si parla a distanza, più di un metro, senza sfiorarsi, senza poter sussurrare e c’è vertigine, attesa, timore, palpabile e pesante.
Molti sono travisati, non mostrano il viso, si nascondono nelle loro mascherine, con la gioia di un carnevale di peste.
Niente tornerà come prima e non riavremo mai più quello che questa peste ci ha portato via mentre ci ammaleremo tutti di quello che ci ha donato: il senso della distanza e del travisamento, il timore di chi abbiamo amato e abbiamo perduto di travisamento e distanza.
Il dono della peste è il vuoto pubblico e sapere che si può vivere nel vuoto è non poterne più fare a meno.
Anche quando il caldo ci avrà restituito le piazze.
Va bene. Va bene così.
Penelope è una reggia vuota del suo re
Sono quelle stanze occupate da mille persone
Penelope sa benissimo come si riconosce un re
Un re pone il suo onore nel meritare fiducia. Ha il coraggio di esserci quando si ha bisogno di lui
Un re marinaio sa condurre la sua nave verso il porto, sa che navigare è riportare tutti i marinai che hanno messo la loro vita nelle sue mani alle loro case e lui per ultimo
Ulisse sapeva navigare, aveva il coraggio delle colonne d’Ercole, il coraggio di andare oltre il confine del mare e, soprattutto, di tenere la rotta quando il mare ribolle di sirene che chiedono solo di dimenticare una direzione, abbandonare la bussola, lasciarsi trasportare dalle onde, scomparire
Ulisse sapeva come si tradisce, sapeva usare l’astuzia dell’attesa, trasformare l’intelligenza in un tranello e in un inganno, perché un re vince le guerre, conquista il bottino di sangue che è la schiavitù di chi si è lasciato ingannare, di chi ha voluto l’inganno pur di finire una guerra, la morte per non aspettare la vita che si consuma dentro un assedio
Penelope aspetta il suo re nelle stanze del castello, finisce i suoi occhi al telaio, tesse come se non ci fosse nessun assedio, come se la nave di Ulisse non si incrociasse nel deserto mediterraneo con i lutti di Enea, non naufragasse nella ricerca di acqua, non soccombesse alla sordità dei banchetti di Didone
Si prostituisce all’assenza perché chi occupa la reggia non è un re ma sa offrire lo spazio di una gioia nel vuoto incavo della sua vagina secca di sale e lontane tempeste. Ama quei pretendenti. Di ognuno ama qualcosa. Di tutti ama il destino: morire di freccia, per mano di Re, morire perché la gioia di una regina deve soccombere al ritorno del suo signore
Nemmeno Omero, però, ha scritto cosa hanno fatto Ulisse e Penelope dopo quella strage danzante, dopo quelle frecce che hanno trafitto il cuore di coloro che avevano amato Penelope, di coloro che Penelope non aveva mai amato e ai quali aveva prostituito il suo bisogno di essere sazia e sola, di essere regina e vedova di un niente che sbiadiva il ricordo della sua anima
Non lo ha scritto perché non c’era più niente da raccontare. Perché Ulisse non ha solo trafitto il cuore di chi era colpevole di non essere amato. Perché alla fine Ulisse non poteva restare a Itaca, Itaca non poteva contenere i mari che lui portava dentro
Ulisse non è tornato a Itaca per restarci, è tornato perché aveva bisogno di Penelope per completare il suo viaggio. Per partire verso un dove che non conosce né ritorni né approdi.