Capbreton
Il sole di Capbreton.
Scalda anche questa pioggia fitta e nervosa, che lascia i bambini a casa, avvolti nell’inverno della loro prima influenza.
Il sole di Capbreton.
Scalda anche questa pioggia fitta e nervosa, che lascia i bambini a casa, avvolti nell’inverno della loro prima influenza.
Lo conosco fin da piccolo.
Quando gli altri bambini giocavano a pallone, lui faceva collezione di gomme da cancellare profumate con le sorelle più grandi.
Una famiglia strana, soffocata da un padre molto di successo, affascinante, non particolarmente votato alla fedeltà coniugale.
La madre, triste: una bella donna invecchiata anzitempo dai tre figli, acida.
Lui quasi invisibile nell’assenza del padre, nella disperazione isterica della madre, nella graziosa vacuità delle sorelle.
Mi è cresciuto accanto.
Quando è diventato grande, ha cominciato a parere un pò troppo effeminato.
Delicatamente bello, quasi efebico, un modo cortese di porgere le cose nel conversare.
Sensibile, a tratti eccessivamente sentimentale, ma sempre intelligente.
Veniva spesso a casa mia, finché una volta si sentì in dovere di confessare al mio imbarazzo il suo innamoramento.
Non ci siamo quasi più visti.
Oggi era seduto su una panchina, nelle prime ore del mattino, il viso orrendamente truccato, l’aria disfatta di una notte malvissuta.
Mi sono fermato a salutarlo.
A salutare il suo stupore: non pensava che mi sarei fermato.
E mi sono ricordato di avergli voluto bene.
Di volergli ancora bene.
Assorbendo una volta di più tutta la sua sofferenza di bambino invisibile.
Chi è che questa mattina ha sciolto:
– la kapò da un paio di centinaia di libbre, con gambe ad X, culo quasi per terra, calzoni neri a pinocchietto, calzerotti tigrati, blusa celeste angiolone, che si tirava dietro una bambina d’un tre anni, alla quale ripeteva con slabbrato accento slavo: "Tu adesso dormire, cosa deve fare bambina? Dormire e mangiare. Questo deve fare bambina buona", facendomi ricordare che a me la strega di Hansel e Gretel ha sempre messo una gran paura;
– la ciclista che mi ha scampannellato con somma urgenza perché ero fermo sul marciapiede a cercare di ricordarmi il nome dell’architetto che ha disegnato un palazzo e a chiedermi se era stato lui a progettare anche il giardino all’italiana sfruttando l’ideologia dell’ortus conclusus o se era stato un altro, e mi ha dato di imbecille addormentato con un tuaccio che ha fatto accapponare le mie già timide pudenda?
Ma soprattutto chi è che ieri sera ha sciolto il fine intellettuale che diceva "io sono un vero appassionato di libri, un uomo libridinoso: quando entro in una libreria non riesco a non comprare almeno un tascabile. Eppoi mi piace scrivere, so scrivere benissimo. Pensa che tutti i libri che avrei voluto scrivere sono stati già scritti"?
E’ accanto alla sua mamma.
La culla balla nella danza delle sue gambe che cercano il cielo.
Una figlia.
Niente più che una figlia.
Poteva essere stata persa nella giungla.
Poteva essere stata inseguita da Shere Khan.
Potrebbe chiamarsi Maddy.
E’ una città molto più bella di quello che può sembrare ad una macchina in fila alla stazione marittima.
Livorno è una città notturna.
La città in cui Luchino Visconti ha ambientato le notti bianche di Fyodor Dostoyevsky.
Ma non sembra questo.
E’ la città in cui se ti fermi dal giornalaio, la vigilia di Natale, e chiedi: "il corriere della sera e il sole 24 ore", quello ti guarda male, finché non aggiungi, finché non ti senti in dovere di aggiungere: "e mi dà anche liberazione ed il manifesto".
Allora, ti sorride, sgangherato, e dice "buon natale, compagno".
Livorno è una città in cui è impossibile invecchiare.
Fino a quarantanni, sei un "bimbo", poi diventi un "giovane", e solo quando sei davvero vecchio ti senti chiamare come "quello lì", "vello lì", direbbe un livornese.
Soprattutto, però, Livorno ha una luce meravigliosa.
E’ vicina a Marsiglia, la luce di Livorno, una luce letteraria, che sa di pittura.
La luce della tramontana di inverno.
Secca e pulita.
Si, Livorno è una città bianca, molto più vicina a Marsiglia che a Firenze.
E’ un frinire allegro e quieto il parlare dei bambini
Il loro posarsi sulle cose
Accarezzandole con la freschezza della scoperta
Come una bimba cui la madre dice:
"Lo sai che domani compi due anni e mezzo?"
E risponde
"Di già?"
Ieri mi hanno scritto dall’Australia.
Mi ha scritto uno dei miei migliori amici.
E’ più giovane di me.
Non troppo.
Ma è più giovane.
Lo ricordo poco più che bambino.
In quei momenti in cui pochi anni separano un ragazzo da un uomo.
Ricordo una notte passata a parlare di tutto e di nulla.
Una orrenda bottiglia di grappa alla ruta che finimmo.
E che restituimmo per intero insieme ai nostri succhi gastrici.
E’ una di quelle persone in cui si può avere fiducia.
Incondizionatamente.
Persone rare.
E’ partito per l’Australia.
Ha deciso di emigrare.
Con la cartella di cartone di chi ha bisogno di realizzare i propri sogni.
Forse, nemmeno i suoi sogni.
Ma i sogni di sua moglie: giovane architetto in cerca di impiego, con una concreta prospettiva da desperate housewife.
Lui, in fondo, i suoi sogni li poteva realizzare anche da noi.
E’ un sistemista bravo e preciso.
Mi manca, anche se non ci sentiamo quasi mai.
Mi manca la sua dolce ingenuità.
Ed ammiro il suo coraggio.
Il coraggio di partire lasciando tutto alle spalle.
Per cercare lavoro.
Senza nessuna certezza, se non quella che se le cose vanno male sarà difficile ritrovare quello che si è lasciato.
Mi ha scritto che Sidney è un incrocio fra il centro di NY e l’america anni 50 di Paris Texas.
Quella america che Wenders ricostruisce come se tutto si fosse fermato negli anni 50.
E penso spesso a lui, nella speranza che i suoi sogni si avverino.
La bambina più feroce che conosco è figlia di un mio amico.
Una volta decisero di passare qualche giorno di vacanza in un villaggio per svizzeri.
Non so come.
Ma riuscirono ad ottenere il permesso di entrare.
Una famiglia assolutamente felice.
Il babbo, molto babbo.
La mamma, molto mamma.
La figlia maggiore, molto figlia maggiore.
La figlia minore, molto colorata e straordinariamente carina.
La spiaggia era una spiaggia per bambini svizzeri.
Ordinata come un orologio.
Costellata di castelli di sabbia che erano stati progettati durante tutto l’inverno.
Insomma una cosa abbastanza terrificante.
Un giorno, sulla spiaggia il babbo era solo con le bimbe.
La bimba più grande sente il bisogno di andare in bagno.
Viene accompagnata in bagno.
La bimba più piccola viene lasciata da sola: stava giocando con un altro bambino.
Dopo pochi minuti, il babbo vede il bambino urlante e sanguinante che viene portato via dal nonno – svizzero.
Sente il nonno avvertire una coppia che stava arrivando: non andate in spiaggia, c’è una bambina terribile.
Era successo che la bambina aveva morso il bambino fin quasi a staccargli un orecchio.
Inutile dire che quando il mio amico è tornato – correndo – in spiaggia la bambina stava giocando.
Assolutamente tranquilla e sorridente.
E con molti più giochi di prima.