La primavera dei morti (Seconda)
Accompagnati nell’ultimo Sole d’autunno dalla spinta distratta di un badante.
Respirano.
Rampicanti stretti contro la luce, lo struggersi di una stella.
Accompagnati nell’ultimo Sole d’autunno dalla spinta distratta di un badante.
Respirano.
Rampicanti stretti contro la luce, lo struggersi di una stella.
Milano.
Liceo del centro.
Molto borghese.
Diciamo fra via dei Giardini e il Circolo della Scherma.
Ragazzina.
Quinta ginnasio, ottima famiglia di buona nobiltà industriale, con una qualche allure resistenziale.
Carina, come è carina una bimba cresciuta in un mondo nel quale tutti sono carini.
Nel quale essere carina assomiglia a un dovere sociale.
Quasi una questione di buon gusto.
Esattamente come l’intelligenza sensibilmente nevrotica della madre.
O gli abiti di buon taglio genovese del padre.
Smette di studiare.
Va a scuola senza portarci il cervello.
Mangia sempre di meno.
Si svuota.
Si svuota dal di dentro.
Il nonno si preoccupa.
La madre si preoccupa.
Il padre non c’è, naturalmente.
La madre trova un diario.
Agghiacciante.
Notti passate in gare fra ragazzine a chi si faceva sbattere da più uomini.
Con testimonianza via sms e autoscatto.
Interi pomeriggi a sniffare eroina, perché ha un prezzo compatibile con la paghetta e iniettarsela fa troppo tossici.
Un mondo di ragazzini svuotati.
Guidati da ragazzotti svuotati.
Pochi ragazzotti che esercitano uno strano carisma su molti ragazzini.
Lei, che è orgogliosamente fragile, cade nelle stanze buie di una noia rubata dal dolore dell’adolescenza.
Cade dentro il carisma oscuro dei più grandi.
Che sono tutti di ottima famiglia, figli di amici dei genitori, carini e intelligenti.
Forse, le classi separate dovrebbero essere per loro.
Anche se parlano benissimo in italiano.
Un povero cerca il sole durante l’inverno.
Quell’ultimo calore che consente alla notte di trovare il mattino.
Ed al mattino di allontanare la morte.
Di spostarla un po’ più in là.
Il povero che uno si immagina è quello.
L’immagine nitida di un sorriso steso al sole in una mattina pungente.
Sottovento ad una panchina.
Ma ci sono poveri che fanno più male.
C’è il carcerato cui muore la madre.
Un ergastolo che si trasforma in un permesso di tre giorni.
Senza soldi.
Senza sapere più nulla della realtà di fuori.
–> Cosa devo fare?
–> Non ho più nessuno.
–> Non so nemmeno dove mangiare…
Tu distratto che ascolti la suora che gli risponde: Ma non si preoccupi, qualcuno penserà a lei.
E va via.
Nella solitudine fatta di neon di una corsia di ospedale.
Resta fermo.
Immobile.
Appoggiato al muro dell’obitorio.
Al freddo del muro dell’obitorio.
Ripete:
–> E ora cosa devo fare? Lo so io cosa devo fare: prendo uno a ceffoni e mi fo riportare in galera. Che non mi possono mica fare nulla. Che l’ergastolo me l’hanno bell’è dato. Che non è possibile che non pensino che uno che esce dopo quindici anni non sa più nulla, che ha bisogno di essere accompagnato, che fuori non si rinviene più, che dentro non si sta mica male, che ci sono persone buone e cattive come fuori, ma è tutto più facile.
Tu distratto che vai via, dopo essere arrivato per sbaglio in quel corridoio.
Lasciando una elemosina che sembra una mancia.
C’è anche il tuo amico di infanzia che è diventato povero.
Povero con un lavoro da 2000 Euro.
Povero per 1000 Euro di mutuo da pagare per la casa che è restata alla moglie e ai figlioli.
Povero per 500 Euro di alimenti e la metà delle spese sanitarie e di istruzione.
Povero che non ha i soldi per comprare le scarpe da scoglio ai bimbi.
Forse è questa la povertà che fa più male.
Un concerto.
Bello.
Forse più bello di altri.
Forse, no.
Sicuramente una strana atmosfera.
Un concerto di fine maggio in un parco mediceo.
Pioggia.
Pioggia battente.
Insistente.
Pioggia a penetrare gli abiti.
Tiepida.
Piacevole.
Amici.
Gli amici di sempre.
Più Gesù.
Che nessuno vedeva da anni e che si è tagliato barba e capelli.
Fino a perdere il profumo da redentore che lo accompagnava un tempo.
Da redentore birichino.
Ma non era Gesù la persona che mi ha agguantato il cuore.
No.
Era un tizio enorme.
Solo.
Completamente solo.
Accanto a noi.
Grosso di quella grandezza imbarazzante che hanno certi giganti.
Solo di una solitudine un po’ idiota.
Della solitudine di chi sa di essere idiota.
Che è una solitudine strana.
Irrimediabile.
Una solitudine che si scusa della propria stupidità.
C’è questo negli idioti, talvolta.
La consapevolezza dei propri limiti intessuta come una colpa.
Resta.
La montagna solitaria.
Molto più di Nick Cave.
Più della pioggia.
Resta e fa male la sua elemosina di normalità.
E’ una strana città.
Una città che ha lottato contro l’Asia ed è stata sconfitta.
Non erano barbari gli invasori.
Non lo erano affatto.
Non sono infedeli coloro che vivono di preghiera nelle moschee.
E’ meravogliosamente profonda la loro preghiera.
Silenzio.
Silenziose genuflessioni verso una finestra aperta in direzione della Mecca.
La preghiera non ha bisogno di immagini: gli iconoclasti hanno vinto.
Ha bisogno solo di una direzione, di guardare verso la salvezza, verso il ritorno, il pellegrinaggio.
Ci sono molte città in Istanbul.
Tutte vecchie.
Antiche.
Moderne.
Una continua – e viva – contraddizione.
Esiste a Galata un libraio.
Vende libri vecchi.
Libri nuovi e libri antichi.
Mischiati.
Non hanno prezzo i libri di Istanbul.
Non viene neppure stampato sulla quarta di copertina.
I libri, qui, sono ancora una mercanzia.
Il cui prezzo sta negli occhi dell’acquirente.
In partenza.
Lo zio Omero catalogato fra le chiamate deviate automaticamente su una linea morta.
Meglio non rischiare.
In borsa, Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino.
Destinazione un porto greco – Kavala – a 112 miglia dallo stretto dei Dardanelli, dove il Mediterraneo incrocia il Bosforo.
Rollins plays for Bird nell’Ipod.
Strana colonna sonora.
L’aereoporto e’ quello che appare un hub di provincia, senza connessioni wi-fi.
Io sono inchiodato ad una sedia, confuso fra anziani diretti (o destinati?) a Nizza.
Piove.
Un verso mi ossessiona:
Se venissero a prenderci il cuore, ci troverebbero insieme.
Lo applico a questi anziani.
Lo cerco nei loro occhi.
Senza alcun divertimento.
Nel quartiere Ponticelli, da qualche parte nel nulla che avvolge Napoli, la popolazione "civile" si è ribellata alla presenza ingombrante dei nomadi.
I giornali ricordano che gli zingari sono stata l’unica popolazione, insieme agli ebrei, di cui il nazismo si proponeva lo sterminio totale (così Filippo Faccio, in prima pagina del Giornale di Paolo Berlusconi: il buonismo del miliardario ridens avanza).
Ricordano anche che da Auschwitz uscirono vivi (se si può considerare viva una persona che ha vissuto Aushwitz) solo quattro zingari.
Non c’entra nulla.
Proprio nulla.
Lo sterminio nazista non ha niente a che vedere con una guerra fra poveri.
Una guerra di povertà ed ignoranza.
Forse di camorre.
Soprattutto l’essere stati vittime dello sterminio nazista non è una medaglia da appuntarsi sul petto.
Non attribuisce dei "diritti speciali" nei confronti del resto del genere umano.
Anzi.
Dovrebbe costringere a pensarsi esattamente eguali a tutti gli altri.
Proprio perché qualcuno ci ha pensato inferiori in un recente passato, oggi non possiamo pensare di essere superiori a qualcun altro.
Naturalmente non vale solo per i nomadi di Ponticelli.
Vale per tutti gli "insettacci" citati in epigrafe, cui si possono tranquillamente aggiungere anche i cinesi.
Che ci stanno sempre bene.
Una societa’.
Come tante.
Ne’ grande ne’ piccola.
Un cliente come tanti, ma non per la societa’.
Importante. Di quelli che fanno fatturato.
Bruttino.
Untuoso.
L’aria laida del puttaniere con moglie misogina.
Arriva.
Parla con il direttore.
Allegro e chioccio chiede della Luisa.
Non c’e’. E’ in maternita’.
Diventa freddo.
Il direttore esce. Preoccupato. Chiama la responsabile marketing.
Una bella donna. Apparentemente docile.
E’ arrivato il Caposecchi. Ha chiesto della Luisa.
Ah.
Gli e’ che la Luisa lo ha viziato. Sa come succede. Basta un sorriso. Una camicetta appena scollata. Delle calze un po’ maliziose. Insomma non le sto chiedendo niente, beninteso, niente di stravagante. Solo una conversazione cortese…
Lei si blocca.
Diventa tutta rossa.
Non riesce a non piangere.
Ma si cambia.
E sorride al Caponeri.
Non sposta ne’ il piede, ne’ la gamba.
Si lascia prendere.
Amaramente.
Da uno che non si nega nulla.
Ne’ la zuppa di fagioli e cipolle.
Ne’ una fellatio con singhiozzo.
Non e’ difficile molestare chi lavora per sopravvivere.
La dignita’ non ha prezzo, ma non sfama.
Guccini assomiglia ad una cucina in formica che e’ stata piastrellata Casabella negli anni ottanta e ristrutturata minimal nel duemilaotto.
Senza toccare le finestre, che danno quella luce tenera e sconcia, o la porta che e’ rimasta difettosa, come sempre.
Guccini e’ un concerto di tanti anni fa: tre idioti ed una ragazza che pensano di diventare adulti con una notte a Pisa. Lo stesso tono grottesco e greve, invecchiato senza accorgersene al motto del Io ce la faccio ancora: a bere il vino a boccia, a tirar mattino, a sparar cazzate, a stonare canzoni e intonare poesie.
Ha una vitalita’ selvaggia. Triste. Incoativa.
No. Non ce la faccio piu’ a preoccupparmi di sogni matti o di avventure folli. Non bevo il vino a boccia. Non tiro il mattino. Non sparo cazzate, ma solo calci nel sedere.
Eppure provo una struggente nostalgia per quando quelle canzoni mi aprivano il cuore e mi sembravano dilatare lo spazio verso una comprensione nuova. Quando la fine di un amore era una eternita’ che si perdeva per sempre, dopo un numero esatto di giorni: 5 mesi e 25.
E lo incollo nei 160 giga del mio ipod.
Solo per ritrovare il sapore metallico del primo vino, che forse mi manca molto piu’ dei primi – ed assurdamente, perigliosamente, inutilmente eterni – baci.
E’ semplicemente il nome di due parti su un fascicolo: tizio contro tizia, Kramer Vs Kramer.
Ma non è così.
I fascicoli sono persone.
Persone che sono diventate atti.
Che, di solito, non avrebbero voluto diventarlo.
Ma succede e di solito l’unica cosa è cercare di mantenere un po’ di dignità.
Anche se uno ha due figli, uno appena nato, e sta lasciando la moglie.
Racconta di avere un’altra donna.
Di avercela da tempo.
Lo ascolti.
Con cortese compassione.
Ti guarda, stupito, e dice: Grazie, è la prima volta che lo racconto e non mi sento giudicato.
Non sono io che ti devo giudicare.
Ti basta sentirti come ti senti.
Come ci si sente ad abbracciare un’altra donna mentre il proprio figlio piange a casa.
Io non ti devo dire proprio nulla.
Nulla che non ti puoi dire da solo.
Naturalmente, non dici nulla di tutto questo.
Sorridi.
Con_compassata_cortesia.