Autodifesa
Da casa, la signora Lonardo ha fatto cadere un governo.
Difficile non condividere la richiesta di revoca degli arresti domiciliari.
Al consiglio regionale, faceva sicuramente meno danni.
Da casa, la signora Lonardo ha fatto cadere un governo.
Difficile non condividere la richiesta di revoca degli arresti domiciliari.
Al consiglio regionale, faceva sicuramente meno danni.
Ieri Berlusconi ha occupato pesantemente i nostri televisori.
Prima ha denunciato l’intesa sulla legge elettorale raggiunta con Veltroni.
Non sarebbero possibili accordi con una maggioranza liberticida.
Il problema sarebbe il disegno di legge Gentiloni sul conflitto di interesse.
Poi ha presentato Pato, il nuovo giocatore del Milan.
In entrambi i casi ha confermato il look scravattato di piazza San Babila: una sciarpa di seta blu a pois su camicia villosamente aperta.
I pois di Berlusconi non sono amichevoli.
Ricordano un po’ un cantante lirico.
Hanno la stessa eleganza degagé.
Contemporaneamente sciolta ed impacciata.
In ogni caso, fa pensare.
Fra il Berlusconi su Pato, il Berlusconi sul conflitto di interessi, il Berlusconi sulla riforma elettorale non ci sono soluzioni di continuità.
Berlusconi occupa uno spazio della domenica televisiva che è lo spazio del chiosco degli sportivi.
Non c’è nulla da fare.
Un politico che è un affabulatore da bar ha un potere straordinario.
Parla direttamente al cuore del suo elettorato.
Il suo successo calcistico impegna il suo potere politico.
Rifiuta il conflitto di interessi perché lo scaccerebbe da un porto sicuro, dal caffé corretto con la sambuca che illumina il pensiero degli altri avventori sulla logica delle tre punte.
Rifiuta il consenso sulla bozza Bianco (se esiste ancora) perché non ha bisogno di una riforma elettorale per conquistare i voti di una coppa intercontinentale.
Tutto questo è stato molto elegante.
Il presentatore della domenica sportiva ha fatto aspettare Berlusconi per tutto il tempo di uno spot della Acer e lo ha interrotto prima del tempo per dare spazio alle domande sul colore (giallo) delle scarpette del nuovo fenomeno milanista.
I pois di Berlusconi sono restati cortesemente imperturbabili.
Questo aggio mediatico, che permette al padrone del pipi di godere di un plusvalore di legittimazione democratica, è il vero problema della riforma elettorale.
Qualsiasi gioco sulle regole elettorali deve partire dai presupposti della competizione politica, ponendo gli attori sullo stesso piano.
Altrimenti la competizione resterà falsata.
Almeno fino a quando D’Alema non diventerà il presidente della Roma e comprerà Ronaldinho.
O Fini sbarcherà nella perfida Albione conquistando il Chelsea.
Il poveretto è sempre stato chiamato verginello.
Per un motivo molto semplice e se così si può dire onomatopeico: riusciva a barcagliare le ragazze solo per rimbalzarci come uno yo yo.
Altra caratteristica essenziale del povero verginello era l’assoluta semplicità di spirito.
Non riusciva a capire assolutamente nulla.
Così, una sera di inverno fu deciso che la sua imbecillità meritava una franchina.
Tutti conoscevano perfettamente la franchina e pareva impossibile che qualcuno non la conoscesse.
Verginello non la conosceva.
Gli fu detto che una ragazza, Valeria, che lui conosceva a mala pena, ma che era piuttosto carina, si era innamorata di lui.
Verginello si convinse subito.
Si convinse anche che Valeria aveva un padre talmente geloso che non poteva incontrarlo senza correre rischi seri.
Valeria una sera gli dette appuntamento in dei giardinetti.
Quasi in centro.
Verginello arrivò in macchina.
Pulitissima, lucida, perfetta: la macchina del babbo pronta per il primo amplesso del giovine.
Valeria salì.
Convinse verginello a lasciarle il posto di guida e a mettersi dietro: lo voleva guardare mentre guidava.
Iniziò a guidare.
Verginello si lasciò convincere a spogliarsi.
Quando fu completamente nudo, lei fermò la macchina.
Sempre in piena città.
Sempre vicino a dei giardinetti.
Scese.
Si avvicinò alla portiera.
Fece per salire.
In quel momento, il "padre" saltò fuori urlando.
Verginello si fece leone e uscì di macchina per difenderla.
Lei ed il "padre" saltarono in macchina e sgommarono via.
Verginello rimase solo e si chiuse in una cabina telefonica.
Un tipo – esistono sempre gli idioti – pensò che sarebbe stato divertente farlo uscire dalla cabina e cominciò a urlare come un ossesso.
Un altro buttò un paio di petardi modello El Alamein.
Qualche disgraziato che voleva dormire chiamò i vigili che accompagnarono il povero verginello a casa.
Nessuno lo ha più visto.
Ma poi:
– un demente con i sandali che ti cammina davanti pesta il prodotto del sedere di un cavallo,
– una disgraziata in bicicletta perde l’equilibrio e si schianta contro un muro di giapponesi che fotografa le porte del Battistero,
e allora diventa possibile entrare al Chiosco degli Sportivi, chiedere un caffé e rispondere al buongiorno con un Grazie, le mie giornate sono sempre fantastiche.
Toto Cotugno non è solo il cantante anni ottanta che si sta rifacendo una verginità nei paesi dell’est.
E’ anche il giovane di bottega di un barbiere di lusso del centro storico di Firenze.
Un giovane barese di cinquantacinque anni.
Assolutamente convinto di essere identico a Toto Cotugno.
Anzi di essere il vero Toto Cotugno.
Peccato si chiami in un altro modo.
In ogni caso, porta un parrucchino con appiccicata la chioma del suo idolo.
Indossa improbabili camicie a righe, di una stoffa modellata sulla tappezzeria di una professoressa di inglese arrivata zitella alla soglia dei novanta anni.
Aperte su un petto, dove, fra i peli, si affaccia un crocefisso a forma di ancora con catenaria da petroliera.
Le gambette affustate dentro a dei pantaloni di pelle, anche d’agosto, incredibilmente rigonfi laddove è opportuno.
Alla sera frequenta un night, sulle colline, dove verso la chiusura gli permettono di cantare e lui dice di accettare per filantropia, ma gli avventori non sono d’accordo.
D’estate, c’è sempre qualche festa dell’unità, del volontariato o di rifondazione che lo ospita, sgangherato, e, in questo caso, gli avventori criticano la sua arte in maniera molto più palese.
Al mattino, lo si vede davanti al Chiosco degli Sportivi che guarda il cartellone con le corse dei cavalli, di cui è un notevole esperto, discetta di handicap e stacco, trotto e galoppo, segna numeri e numeri su un taccuino che porta sempre con sé, in una calligrafia infantile ed incerta, finché non si gioca l’intero stipendio.
Ecco, uno così è contento.
Sorride sempre.
Anche se ha tre figli di cui non sa nulla da più di venti anni.
Anche se si accompagna ad una donna che non disdegna di proclamare – pubblicamente ed a voce alta – la sua inutilità, quando alla sera lo recupera dalla sala corse e se lo riporta a casa in un tornado di improperi e pedate che non gli lasciano nemmeno toccare terra.
Se sei uno zingaro ed entri al chiosco degli sportivi, passi davanti a tutti.
Il muro di clienti che folleggia davanti al bancone si apre.
Il barista ti prepara subito il caffé.
Il proprietario urla di servirti subito perché hai da fare cose urgenti.
E tu ti comporti in maniera antipatica.
Ostenti la sporcizia colorata della tua gonna.
Mostri i denti d’oro in una risata sguaiata.
Urli nella tua lingua gutturale.
Bevi rumorosamente.
E reciti la parte della signora con l’euro di mancia che lasci nel piattino.
Quell’euro che io, che vengo sempre salutato con un bel coretto di "buongiorno, professore", non ho mai lasciato.
E’ rimasto uno degli ultimi bar per indigeni del centro di Firenze.
Sopravvive ai margini di piazza della repubblica.
Di fronte all’ingresso posteriore della procura della repubblica.
Ed ha la consistenza di un acquario.
La cassiera del mattino ha i riccioli pettinati alla maniera di un film muto.
Il cassiere del pomeriggio è inutilmente cordiale.
Tutti portano una cravatta viola, un gilet nero ed una camicia bianca.
Tristi quelle cravatte annodate a festa.
Tristi quelle camicie stirate come se fossero magliette.
Per tutto il giorno, un televisore da pochi pollici è acceso su programmi casuali.
Mi piace questo posto.
La sua aria dimenticata.
La finestra che offre su un mondo che passa distratto.