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Tag Archive for: chiosco degli sportivi

Brufoli (Brutta come la strega nocciola)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
25/10/2017

E’ brutta.

Oggettivamente brutta.

Brutta come può essere brutta un’adolescente, dove essere brutta non è solo una questione estetica, è anche accettare l’inaccettabile. Il dolore di non essere all’altezza dei propri desideri. Di essere brufoli e un naso enorme, quando si vorrebbe avere una pelle di seta e un nasino alla francese.

Siccome è brutta è anche antipatica e siccome è antipatica non è difficile prenderla in giro.

Nessuno sa chi le ha dato il soprannome di Lesbo_Scoppola, perché le brutte si chiamano per cognome e anche se non si chiama Scoppola le starebbe benissimo.

Nessuno sa chi le ha rubato le scarpe nuove dallo spogliatoio della palestra mentre faceva ginnastica con le altre ragazze.

E nessuno sa chi ha risposto “Prova a darla” quando ha chiesto un euro perché aveva fame e voleva comprare una schiacciatina all’uscita di scuola.

Ma tutti sappiamo che quello che i giornalisti chiamano bullismo è la crudele invenzione dei brufoli da parte di un dio che non sapeva come fare a togliere le fiabe dall’anima della più bella fra le sue creazioni.

I pensieri politicamente scorretti di una Bambina Impertinente (Il Lontra)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
10/10/2017

http://cjalcor.blogspot.it/2012/08/fino-una-cinquantina-danni-fa-cerano.html

Il lontra viene chiamato così perché sostiene di avercelo come questo animale e lo ripete :

Ce l’ho come una lontra…

E’ il tempo in cui i maschi hanno l’ossessione delle misure e le femmine li guardano con divertito disprezzo.

Bimba Impertinente non lo sopporta e lo considera un mentecatto.

Però non è facile azzittirlo.

La soluzione è la terribile mamma di Lapo e, soprattutto, fruttivendola al mercato centrale, che sente il ritornello all’ingresso di scuola e dice, veloce come se fossero appena arrivati i porcini:

Chi l’ha lungo se lo tira

Poi si accorge che la mamma del Lontra lo ha munito di una sciarpina e aggiunge:

E a te, a furia di tirartelo, t’è venuto anche il torcicollo

Il poverino arrossisce mesto come un disco di jazz scandinavo e si dice che da quel giorno abbia ricominciato a cantare le canzoni dello Zecchino d’oro.

Chi li ha sciolti? (Negrobus)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
04/10/2017
Uomo diversamente colorato che usa l'autobus

Negrobus sul 22

Il Negrobus è l’immigrato da mezzi pubblici. Una particolare categoria di extracomunitario nota a tutti i pendolari.

Con l’avvertenza che i negrobus non sono solo originari dell’Africa subsahariana. Ci sono negrobus rom, cinesi e anche italiani.

La domanda che non riesco a non pormi ha per oggetto il biglietto che tiene fra i denti.

Nasce da anni passati sul Feccia Nera, il treno che unisce Pisa a Firenze ma anche Firenze a Pisa e consente a Montelupo, Empoli, San Miniato, Santa Croce, Pontedera e Cascina di non essere ingoiati da un universo parallelo.

Sul Feccia Nera i negrobus viaggiano solitamente senza biglietto.

Quando il controllore li ferma, scendono dal treno. Aspettano il successivo e prima o poi arrivano a destinazione senza mai fermarsi alla biglietteria.

Questo ha il biglietto e lo tiene in bocca ostentamente, come un osso.

Lo fa per dire:

Sono diverso da tutti gli altri e pago il biglietto

Oppure sta lanciando una sfida:

Chi ha il coraggio di controllare il timbro su un biglietto sbavato?

Quando non avrà più paura del buio

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
03/10/2017

Bimba Piccola ha sempre avuto paura del buio.

Ha paura di quel viaggio al termine della notte che porta dalla sala da pranzo alla stanza della musica.

Ha paura di addormentarsi perché non esiste un telecomando dei sogni.

Ha perfino paura di tirare lo sciacquone dopo avere fatto la cacca perché le fogne sono piene di mostri blu.

Quando la paura entra fra le sue lenzuola, Bimba Piccola corre, piccoli passi che sembrano castagne nel vento d’autunno, si stringe sulle mie spalle per non svegliarmi ed io faccio finta di continuare a dormire.

L’insonnia del mattino diventa gioia seguendo la traccia dei suoi sogni nel suo respirare lieve e profondo.

Bimba Piccola ha paura del buio,

Io, di quando non ne avrà più.

Voglio credere in Babbo Natale e nel Topino che compra i denti dei bambini

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
29/09/2017
CicognaBabboNatale

Per il topino dei denti

Bimba Piccola ha perso due denti.

Non ha ancora finito di perdere i denti.

Li ha messi sotto il bicchiere e ha messo il bicchiere sopra il comò della Povera Mara che è un ponte fra dimensioni parallele.

Ha aggiunto un biglietto, per scriverlo ha chiesto la stilografica del padre, comunicando che siccome i denti erano due, uno sconto sarebbe stato accettato.

E’ una persona pratica.

Bimba Impertinente ha sorriso impertinente, scatenando la reazione di Bimba Piccola:

Voglio continuare a credere a Babbo Natale e anche al topino dei denti…

Nessuno ha detto nulla e non c’era niente da dire.

Dopo non molti minuti, la stessa bambina ha chiesto:

Per fare un figlio sono sempre necessari i maschi? Io ne farei anche a meno. All’inizio sembrano divertenti, però poi che noia…

Nessuno ha detto nulla.

Non è facile da spiegare (A proposito dei concorsi truccati)

3 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
28/09/2017

Concorsi Truccati

Non è facile da spiegare il problema dei concorsi truccati per l’accesso all’insegnamento universitario nel settore del diritto tributario.

Non è facile se si conoscono, per varie ragioni, molte delle persone coinvolte in questo affare e di alcune si è più che amici e si intende sostenere una tesi controcorrente.

Non fare l’inglese

L’inizio di tutto è una registrazione in cui il maestro spiega all’allievo che non potrà vincere il concorso e che, in questa situazione, per evitare la bocciatura è preferibile lasciar cadere la domanda.

L’allievo ritiene di non meritare una bocciatura, cerca di resistere, il maestro gli dice di non fare l’inglese, perché la mamma dell’allievo è inglese e lo è anche la sua cultura.

Sono cose che non si dicono e non perché non si devono dire ma anche perché non si devono fare.

Non si può dire a una persona di rinunciare a un concorso per ragioni di opportunità tattica diverse dal merito e dai valori in gioco perché non si può alterare – in un concorso – la logica del merito e dei valori in gioco.

Ritirarsi in un concorso può essere meglio che essere giudicati negativamente e se l’allievo avesse corso il rischio di essere respinto con un giudizio negativo dalla Commissione, il suo maestro lo avrebbe dovuto avvertire e consigliare di ritirarsi.

Non dicendo che era il più bravo, dicendo che altri erano più bravi e spiegando – con la necessaria autorevolezza – le ragioni per cui l’allievo correva il rischio di non essere giudicato positivamente.

In tutto questo, c’è un’avvertenza che, forse, chi ha trascritto le intercettazioni e le ha generosamente girate ai giornali ha ignorato. Nel linguaggio dell’università, non solo quella italiana, le parole non esprimono mai il significato che hanno nella vita comune. Quando ti viene detto che hai studiato e che sei una persona intelligente, ma che avevi bisogno di completare la tua preparazione, ti viene semplicemente detto che devi tornare al prossimo appello. Ma con la cortesia che ti evita di sentirti umiliato dalla bocciatura e che consente a chi ti ha interrogato di proseguire senza dover ascoltare le tue proteste.

Sicuramente non era questo il caso, ma vale la pena segnalare questa possibilità, visto che l’intercettazione è stata captata a Firenze e chi teorizzava questo modo di respingere gli studenti più pigri era il maestro dell’autore della frase incriminata, almeno secondo certe fonti orali.

L’anatomia dello scandalo

Lo scandalo è nelle parole di uno dei decani della materia: il prof. Augusto Fantozzi. Si dovrebbe creare una cupola che sia di garanzia per tutti coloro che intendono accedere alla carriera universitaria.

Qui il discorso è particolarmente complesso e rischia di essere più controcorrente di un salmone a pois.

Chi decide di fare la carriera universitaria decide di investire qualche decina di anni della sua vita su una strada che potrebbe non arrivare in nessun luogo e lo fa perché ci crede.

Ci sono due cose che deve dimostrare: di essere in grado di affrontare un problema scientifico in maniera seria e originale e di essere in grado di insegnare ai suoi studenti in maniera seria e comprensibile.

Il resto sono, onestamente, baggianate che possono essere considerate secondarie rispetto a questi due doveri.

Non si dimostra di essere degli scienziati e dei professori in pochi giorni e un concorso, probabilmente, rischia di essere illusorio, perché premia la persona che ha avuto la fortuna di trovare una traccia fortunata e non quella che ha studiato seriamente per tutta la vita ma è incappato in una giornata di febbre alta.

Dal punto di vista di un maestro, un concorso rischia di travolgere anni di lavoro e di premiare una persona che appena vinta la cattedra scompare, perché fare il professore è come fare il prete: ci si può ammazzare di fatica ma si può anche non fare nulla per tutta la vita incassando uno stipendio magro ma certo.

Per il precario che si gioca tutto con il concorso è ancora peggio. Ha investito tutta la sua energia intellettuale seguendo un maestro che gli ha consigliato degli ambiti di ricerca, ha suggerito dei metodi di analisi, ha corretto i suoi lavori via via che venivano scritti e, infine, ha fatto in modo che venissero pubblicati e, possibilmente, anche letti.

In ambito giuridico, ma il discorso vale per ogni settore non bibliometrico e forse anche per quelli bibliometrici, è facile demolire in buona fede il lavoro di un giovane. Ci sono scuole che hanno un approccio al diritto completamente diverso da quello di altre scuole. Per alcuni, il diritto costituzionale è scienza della politica e per altri è diritto processuale, per fare un esempio. Se un cultore del diritto come processo incappa in una commissione di cultori del diritto come storia politica, rischia di ricevere un giudizio negativo.

Questo giudizio negativo non riguarda il giovane studioso ma la scuola alla quale appartiene. Chi è stato indirizzato verso lo studio dal suo maestro ed è stato seguito dal suo maestro, deve anche essere tutelato dal suo maestro quando affronta le prove concorsuali.

Nessun maestro, né oggi e nemmeno ai tempi di Accursio o di Giustiniano, ha una verità vera e inoppugnabile. Ma ciascuno deve essere in grado di comprendere le ragioni degli altri e di giustificare le proprie.

Se si fa questo, non si partecipa a una cupola.

Si partecipa a una comunità scientifica, che è il mestiere di ogni docente universitario.

Non è più tempo di gentiluomini

I concorsi universitari sono da tempo oggetto di attenzione penetrante da parte della magistratura, sia di quella inquirente che di quella amministrativa, ed è giusto che dove ci sono dei fatti che integrano fattispecie di reato queste siano portate alla luce e che dove vi è un andamento delle operazioni concorsuali viziato da violazioni di legge o da eccessi di potere, questi concorsi siano annullati dal giudice amministrativo.

Vi sono delle precisazioni, però, anche in questo caso.

La prima è che se un giudizio è espresso in termini larvatamente positivi può darsi che la sua sostanza sia invece fortemente negativa. Le parole nell’accademia hanno un significato diverso da quello che hanno nel linguaggio comune e non sempre la magistratura, che non frequenta i consigli di dipartimento, è abituata a comprenderne le sfaccettature.

La seconda è che la magistratura, in questo paese, sta assumendo un ruolo sempre più dilagante, di supplenza sia del sistema politico che di quello amministrativo.

Nei concorsi universitari di un tempo era impensabile il ricorso al giudice, perché si sapeva che chi ci giudicava meritava fiducia per la sua levatura intellettuale e per le sue conoscenze del settore. I maestri erano maestri e la loro opinione meritava il massimo rispetto perché avevano davvero letto tutto e lo ricordavano anche, oltre che saperlo raccontare.

I maestri di oggi non sono più così. Sono gli epigoni di pensieri deboli, specialisti di microsettori, entomologi del diritto o, per usare un’espressione d’altri: cesellatori di cocomeri.

Se non si prova rispetto per chi ci giudica, si ricorre al giudice.

Probabilmente nelle materie giuridiche i giudici possono giudicare della preparazione dei docenti universitari e valutare se meritano di insegnare le materie che anche loro hanno studiato.

Forse il Tar del Lazio è più attendibile di una commissione del Miur per valutare l’idoneità dei professori di diritto tributario.

Ma sicuramente non di quelli di meccanica razionale e, forse, affidare anche il governo della università alla magistratura potrebbe essere pericoloso.

Nardella e la prostituzione (Nemo auditur propriam turpitudinem alligans)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
20/09/2017

Si ascolta chi si approfitta della legge per esercitare un commercio immorale?

Nardella nell’affrontare la prostituzione impone qualche osservazione anche a un costituzionalista e non solo a Vladimir Luxuria.

C’è un che di stridente nell’agganciare il divieto della prostituzione alla forza di una multa che viene notificata a casa (e quindi alla moglie del colpevole) e affermare che sarebbe ragionevole riaprire le case chiuse.

Nemo auditur propriam turpitudinem alligans è un antico brocardo latino.

Significa che nessuno può essere ascoltato se il suo diritto si fonda su un presupposto moralmente inaccettabile.

Non appartiene alla tradizione romana ma a quella canonica e ha tutto il sapore della sua ipocrisia. De Cupis lo utilizza nella sua opera sul risarcimento del danno per spiegare il caso in cui l’ingiustizia del danno discende da un’attività giuridicamente lecita ma moralmente inaccettabile.

Il proprietario di un appartamento accanto al quale viene autorizzata l’apertura di una casa chiusa può chiedere al titolare del bordello di essere risarcito del deprezzamento subito dalla sua proprietà: tolerantia lupanarum non abstergit meretricibus turpitudinem.

Di nuovo, il latino canonico e non quello romano.

Nardella e la prostituzione per strada

Nardella si è scontrato, da par suo, con il mondo di questi brocardi affrontando il tema della prostituzione.

Dapprima con una ordinanza nella quale punisce chi contratta per strada con una lucciola.

L’ordinanza appartiene al genere delle ordinanze contigibili e urgenti, che sono lo strumento con cui il Sindaco può fare fronte a situazioni talmente gravi da non poter essere oggetto di alcun altro intervento, e chi disobbedisce è punito perché non ha osservato un ordine legalmente dato.

Il presupposto di questa ordinanza è la situazione di grave degrado generata dalla prostituzione e il suo obiettivo, secondo il Sindaco di Firenze, dovrebbe essere la tutela delle donne e degli uomini costretti a fare commercio del proprio corpo.

L’oggetto dell’ordinanza è la contrattazione della prestazione sessuale come scambio di piacere contro denaro inteso come immorale.

Fin qui tutto bene, forse.

Perché le ordinanze contigibili e urgenti servono per far fronte a situazioni straordinarie e di una gravità che non tollera ritardi dal momento che alterano la struttura democratica del processo normativo.

La formazione di un divieto non discende dal Parlamento e dalla rappresentanza politica ma dall’urgenza: necessitas non habet legem e, questa volta, il latino è quello romano e non quello canonico.

Indubbiamente, vi è nel commercio del corpo di una persona costretta al proprio degrado dalla crudeltà della vita qualcosa di terribile che impone un intervento pubblico.

Nardella e le case d’appuntamenti

Il problema viene dopo.

Il problema viene quando Nardella dice che si può parlare di riaprire le case chiuse perché quel divieto avrebbe un che di ipocrita e perché non si potrebbe chiudere gli occhi dinanzi a un male sostanzialmente inevitabile.

Non può essere così: se il commercio del proprio corpo è moralmente (e costituzionalmente) inaccettabile, lo è sia per strada che in appartamento e l’autorizzazione all’esercizio della prostituzione significa costringere l’ordinamento giuridico ad accettare che una persona possa cedere la propria dignità contro una somma di denaro.

Vi è una contraddizione stridente fra l’ordinanza che vieta la prostituzione per strada in via contingibile e urgente e l’apertura politica verso una tolleranza per le case chiuse.

Non si può affermare che un negozio giuridico debba essere vietato se concluso per strada e ammesso se concluso in un appartamento.

La morale in casa può essere diversa dalla morale per strada?

La morale non cambia a seconda del luogo in cui ci si trova.

Forse, però, e dispiace dirlo il problema è la ricerca del consenso che, per Nardella, in questo caso, sembra molto più importante della ricerca dei valori e della morale.

La prima ordinanza ha strizzato l’occhio al mondo di quanti sono scandalizzati dall’esercizio della prostituzione e ha scontentato quanti apprezzano il piacere sessuale nel buio di un parcheggio di periferia.

Nardella si è accorto che votano anche questi e la sua apertura politica ha cercato il loro consenso.

Gli ha detto che il sindaco è il Sindaco di tutti, anche di quelli che vanno con le signorine e non vogliono farlo sapere a casa.

In questo modo, Nardella, che qualcuno chiama cavallo – il cavallo è l’unico che resta sempre in sella – alludendo alle sue abilità tattiche, finisce per assomigliare a una lucciola impazzita.

La morale non è l’educazione che ammette comportamenti diversi a seconda delle circostanze in cui si trova: la morale discende dai valori e questi, se ci sono, non ci sono solo per strada.

Ci sono anche in casa.

Lo stupro di Firenze e le verità di due carabinieri infedeli per una notte

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
14/09/2017

Le verità dei carabinieri sono spesso inquietanti.

I carabinieri rassicurano ma la loro presenza spaventa e non sono stati pochi i marescialli dell’Arma che hanno subito processi più o meno inquietanti, fra Firenze e il suo contado.

Lo stupro di Firenze, in realtà e purtroppo, poteva accadere solo a Firenze e, forse, questo aspetto non è al centro delle pagine dei giornali che si occupano di una verità ambigua: il capopattuglia che non si accorge dell’ubriachezza al limite del coma etilico delle due ragazze o il suo compagno che dice di avere fatto solo quello che gli veniva ordinato.

Lo stupro di Firenze è accaduto a Firenze perché a Firenze si sono concentrati migliaia di ragazzi americani che non vengono per studiare, ma anche per divertirsi e si divertono bevendo fino a perdere qualsiasi controllo (e limite) per il semplice fatto che non sanno bere e non hanno mai bevuto quando erano con le loro famiglie.

E’ la tragica conseguenza sia di un comportamento che, allo stato delle notizie di cronaca, appare ingiustificabile sia di due culture che faticano ad assimilarsi e anche a convivere.

Il pronto soccorso di Santa Maria Nuova – nel centro di Firenze – trabocca di studenti americani ubriachi a un livello inaccettabile per la nostra cultura e questo accade ogni notte.

Trecentosessantacinque notti all’anno.

La presenza delle università straniere a Firenze dovrebbe essere una occasione straordinaria per lo sviluppo culturale della città.

Ma non è sempre così. Spesso questi studenti sono semplicemente degli strumenti che producono reddito per i gestori delle discoteche e degli altri locali notturni in cui passano le loro notti etiliche.

Lo stupro di Firenze merita di essere severamente punito e i suoi colpevoli ne risponderanno dinanzi all’Autorità giurisdizionale.

Un episodio sostanzialmente isolato

Il montante di vomito alcolico che le notti fiorentine lasciano al servizio municipale di spazzamento delle strade invece è la realtà di tutte le mattine nel centro storico e anche questo merita un severo intervento, magari applicando quelle misure di prevenzione e sicurezza che erano tante care ai carabinieri di Pinocchio e all’Italia Umbertina.

Il primo è un male criminale e come tale deve essere trattato.

Il secondo è un male politico e come tale, purtroppo, non è trattato.

Parole e significati: esistono i sinonimi divergenti?

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
12/09/2017

Poema ferroviario

In Mosca – Petuski, Erofeev spiega che vi sono più di cinquanta sinonimi divergenti in russo per definire l’ubriachezza.

Più di cinquanta modi di essere ubriachi, a ciascuno dei quali corrisponde una esatta parola.

Lo stesso vale per Neve, in finlandese, secondo il Wagner di Luna di ghiaccio e per la parola Pietra in croato, secondo Radio 3.

Queste parole fissano un concetto talmente essenziale per quella cultura da riflettersi in diverse sfumature che a loro volta diventano concetti e perciò lemmi.

Non sono propriamente sinonimi, parole che hanno lo stesso significato di altre parole di cui possono prendere il posto per evitare ripetizioni, ma sinonimi divergenti: parole che ricordano uno stesso significato di altre parole e lo individuano con una diversa sfumatura.

Il contrario delle parole che possono avere più significati diversi e che affaticano i vocabolari di latino e greco del ginnasio, quando la fatica del tradurre era cercare di individuare un significato all’interno di un contesto in cui tutto poteva voler dire altro ed era semplice perdersi.

Mi sono interrogato a lungo sulla parola che può avere un così grande numero di sinonimi in italiano: la mia ignoranza mi ha impedito di svolgere la stessa indagine in lingue diverse.

In effetti, l’idea di ubriachezza identifica la cultura russa, come l’idea di amore è centrale nella Grecia classica, la neve individua una parte dell’anima del nord finlandese e la schiavitù della pietra è caratteristica del ruolo della Croazia nell’economia Ottomana.

Dopo tre o quattro notti insonni, sono arrivato alla conclusione che l’unica parola italiana con un così elevato numero di sinonimi divergenti si trovi esattamente al centro delle donne.

Il che dice molto della nostra cultura e, forse, anche di un Parlamento che invece di parlare di riforme elettorali si perde nelle discussioni sui vitalizi dei suoi membri, scambiando la Luna con il dito ma senza perdere il vero senso delle dita per il nostro vocabolario.

Empatie di avvocati (La proprietà si prescrive?)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
07/09/2017

Gli avvocati sono animali strani.

Più simili a un mostro di livello intermedio di Munchkin che non a servitori della giustizia.

Ci sono avvocati che studiano seriamente il diritto.

Altri che sono affascinati dal fatto e che ne sanno leggere ogni piega.

Soprattutto però ci sono avvocati che non capiscono nulla, che dicono che la proprietà si prescrive e non si vergognano di urlarlo.

Non capiscono nulla di diritto, perché studiare costa fatica e non è per tutti.

Del fatto, perché non c’è niente di divertente negli affari degli altri se gli affari degli altri sono il tuo mestiere.

La differenza fra i due generi si intuisce abbastanza facilmente.

Da come scrivono, da come parlano, da come si muovono.

Persino da come si comportano, gli uni con gli altri, mentre aspettano di combattersi, perché chi litiga per mestiere è più una bestia che un essere umano.

Un uomo di buon senso potrebbe pensare che per vincere in una controversia si debba essere dei buoni avvocati, ferrati in diritto e capaci di analizzare il fatto interpretandolo come un fenomeno giuridico.

Che chi ha studiato poco e non ha mai letto fino in fondo un documento sia destinato al fallimento.

Niente di più falso e di più umiliante.

La verità è che vincono i cialtroni.

Non perché la verità è il sorteggio del Pretore di Monsummano di cui parlava Calamandrei. Erano altri tempi e altre stoffe d’uomo.

Nè perché i giudici sono dei cani che premiano chi è cane come è loro. I giudici hanno vinto un concorso più difficile di quello per diventare avvocati e sanno quasi sempre quello che fanno.

Perché i palazzi, anche quelli di giustizia, hanno un’anima e vince chi è riuscito a impregnarsi di quest’anima, a farla propria.

Gli avvocati bravi sono troppo orgogliosi della propria tecnica per soffermarsi a dialogare con l’anima della giustizia.

I cialtroni, invece, hanno l’umiltà di farlo.

L’umiltà, non la bravura, né l’intelligenza, vince le cause e l’umiltà che vince, talvolta, è davvero umiliante.

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