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La cena dell’astensione

21 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
02/07/2009

ConsultaLa notizia era sull’Espresso di venerdì passato.
Un giudice della Corte costituzionale organizza una cena, alla quale invita il Presidente del Consiglio dei Ministri, assieme al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al ministro della Giustizia, nonché ad un collega.
L’evento diventa oggetto di una interrogazione parlamentare dell’on. Di Pietro e la risposta del ministro Vito diventa una classica bagarre parlamentare.
Lo sfondo è la discussione della costituzionalità del Lodo Alfano, ovvero della legge che stabilisce la (temporanea) immunità delle più alte cariche dello Stato.
L’oggetto della questione è interessante dal punto di vista del diritto costituzionale.
Prima di tutto, dal punto di vista della giustizia costituzionale.
L’art. 51, primo comma, n. 2, c.p.c. stabilisce che non possono svolgere funzioni giurisdizionali coloro che hanno rapporti di commensalità con una delle parti del giudizio.
Questa disposizione si applica al sistema della giustizia amministrativa (in questi termini, Cons. Stato, Ad. Plen., 25 marzo 2009, n. 2).
Il sistema della giustizia amministrativa è il necessario completamento del sistema della giustizia costituzionale per effetto dell’art. 22, primo comma, legge 87 del 1953.
Tuttavia, la Corte costituzionale può adottare delle norme per disciplinare il proprio funzionamento ai sensi dell’art. 22, secondo comma, legge 87 del 1953.
L’art. 29 delle Norme Integrative adottate dalla Corte costituzionale stabilisce che ai giudizi di competenza della Corte costituzionale non si applicano le cause di astensione e di ricusazione previste per gli altri giudizi.
La logica di questa norma è la necessaria astrattezza del processo costituzionale, conseguenza del tono costituzionale delle sue competenze: le cause di astensione e ricusazione presuppongono un coinvolgimento personale dei magistrati che non è ipotizzabile in un giudizio che ha per oggetto l’attuazione della Costituzione.
Fin qui, un manuale di giustizia costituzionale.
Cui si potrebbe aggiungere che la forza gerarchica delle norme integrative è una naturale conseguenza della posizione della Corte costituzionale nel sistema.
Tutto questo rischia di perdere la sua carica assiologica per una cena.
Non perché lasci immaginare che la questione di legittimità costituzionale possa essere oggetto di una cena alla presenza delle consorti.
Ma perché l’indipendenza della magistratura costituzionale è anche lontananza dalla politica e dalle personalità politiche: estraneità alle logiche conviviali che segnano il passo di altre sintesi.
Vi è anche un secondo aspetto che può essere rimarcato: il punto di vista delle convenzioni costituzionali.
Le elezioni parlamentari di Mazzella, Silvestri, Napolitano e Frigo sono state svolte cercando un accordo su personalità che potessero garantire una seria conduzione del proprio ruolo.
Che avessero un colore politico, inevitabile nelle designazioni da parte del Parlamento, ma che garantissero un alto profilo tecnico.
Per questa ragione, sono state elezioni caratterizzate da un vasto consenso trasversale, ben sottolineato all’epoca sia dai presidenti dei due rami del Parlamento che dal Capo dello Stato.
Questa convenzione costituzionale può essere travolta dalla cena di inizio maggio, che invece mostra una organicità sospetta di due giudici rispetto ad una precisa parte politica.
Infine, la cena – o meglio la notizia della cena – può avere un impatto deflagrante sul funzionamento interno della Corte.
Due giudici hanno dimostrato una commensalità che giustificherebbe la loro astensione o una ricusazione, in un giudizio comune.
I colleghi di questi due giudici – gli altri tredici membri della Corte – non avranno difficoltà ad ottenere il loro silenzio nella camera di consiglio che giudicherà del Lodo Alfano: qualunque sia l’opinione che Mazzella manifesterà sarà un’opinione sospetta, targata politicamente dalla convivialità con l’oggetto del processo.
Una Corte nella quale è possibile togliere la parola ad un giudice perché sospetto di parzialità è un giudice pericoloso.

La repubblica dei referendum quindici anni dopo

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
23/06/2009

AstrazioniIl referendum elettorale non ha raggiunto il quorum.
Non è una novità: è dal 1997 che succede.
Sono passati quindici anni dalla stagione referendaria del 1993.
Quando Anna Chimenti definì la crisi del sistema parlamentare come repubblica dei referendum e i costituzionalisti concentravano i loro tomi sui limiti della ammissibilità del ricorso alla democrazia diretta.
Eppure la crisi del sistema parlamentare non è per niente finita.
Il sistema parlamentare si è evoluto in una sorta di regime dell’esecutivo con forti venature plebiscitarie o neocesariste, secondo la definizione di Azzariti (Il Manifesto del 18 giugno).
In questo sistema, il Parlamento si esprime con un voto che non è più sintesi politica, ma, per effetto dell’abnorme ricorso alla fiducia, espressione di un referendum sulla politica governativa.
Come dire: il voto parlamentare ha un senso nei sistemi parlamentari perché riesce a esprimere un indirizzo politico capace di mediare fra maggioranze e opposizioni attraverso una dialettica, fatta di complessi emendamenti e di attente discussioni. Nel momento in cui il Governo presenta al Parlamento testi bloccati dalla fiducia e sui quali l’unico voto possibile è un si o un no, il Parlamento assume un ruolo referendario circa l’indirizzo politico di maggioranza che viene ad essere espresso solo dal Consiglio dei Ministri e dal Capo del Governo, in particolare.
Probabilmente, i tre referendum elettorali sono falliti anche per questo: gli elettori si rendono perfettamente conto che il loro ruolo è ormai del tutto marginale e si riespande, se così si può dire, solo nella competizione politica nazionale, per poi scomparire del tutto.
In questo schema, il referendum popolare è del tutto inutile perché la funzione referendaria è divenuta la principale attribuzione del Parlamento.
Eppure, l’omino di latta bendato con solo la bocca per parlare è una discreta immagine del referendum: al corpo elettorale in una democrazia parlamentare resta solo il referendum per inviare i propri messaggi al sistema della rappresentanza politica.
Rinunciare a questa attribuzione ammantando di inutilità l’istituto attraverso l’astensione non sembra una buona idea.
Soprattutto se il referendum aveva per oggetto una disciplina elettorale più che discutibile e del tutto coerente con il movimento neocesarista che sta lentamente invadendo il tessuto costituzionale.

Berluschini (Il Berlusconi di Ghedini)

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
12/06/2009

Cosimo_IBronzinoEsistono vari Berlusconi.
La personalità di Berlusconi emerge trasfigurandosi nei suoi diversi collaboratori, ognuno dei quali riflette uno degli aspetti del Cavaliere.
Come camerieri che dopo anni di quotidianità prendono i vezzi del padrone che più si adattano al loro carattere.
Berluscondi è il Berlusconi di Bondi: curiale e ipocrita.
Berluschetta, il Berlusconi di Letta: diplomatico e attento.
Berluschini, il Berlusconi di Ghidini: inutilmente e ostentamente bauscia.
Ieri, da Santoro, con Travaglio, in versione particolarmente orticante, Berluschini si è difeso sull’uso dei voli di Stato.
L’argomento è banale: siccome il miliardario ridens investe notevoli denari per la sua carica, ospitando alte cariche di Stato e altri soggetti pubblici, nei suoi possedimenti privati, allora ha diritto di usare a scopo privato beni pubblici.
E’ un argomento caro a Cosimo I Medici: la ragione che gli consentì di trasformare Palazzo della Signoria nella propria residenza personale.
E’ anche intimamente antidemocratico.
In una democrazia il potere deve appartenere al popolo e al popolo devono appartenere anche gli strumenti usati per l’esercizio del potere.
La confusione fra patrimonio personale e patrimonio pubblico è intimamente autoritaria e, di solito, non avvantaggia affatto la cosa pubblica.
Peraltro un bauscia che mira a diventare Cosimo I Medici fa rabbrividire.
Anche se la stampa di Cosimo I non era particolarmente migliore di quella di Berlusconi.

Il diritto al nome

8 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
14/05/2009

studenti_stranieriNon si parla molto di una frazione normativa del disegno di legge in materia di sicurezza.
E’ una modifica banale.
Diabolicamente trasparente.
All’art. 6, secondo comma, del d.lgs. 281 del 1998.
Eccola:
"Fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi, i documenti inerenti al soggiorno di cui all’articolo 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati."
Sono soppresse le parole in corsivo.
Significa che chi non possiede un permesso di soggiorno, non può accedere allo stato civile, sicché non può registrare i propri figli all’anagrafe, dando loro il nome che ha scelto ed il cognome cui hanno diritto.
Dal punto di vista regolamentare, significa anche che questo progetto di legge incide sui diritti di libertà in termini tali da consentire la richiesta di voto segreto ai sensi degli artt. 49 e 51, Reg. Camera.
Ed è questo che il Governo ha voluto impedire con la questione di fiducia.
Inutile osservare che lo scrutinio segreto salvaguarda il libero mandato parlamentare quando si toccano materie (come i diritti fondamentali dell’uomo) nelle quali la disciplina di partito non dovrebbe prevalere sulla libertà di coscienza, perché impedisce ai gruppi parlamentari di conoscere come hanno votato i loro membri.
Inutile osservarlo dal momento che il Presidente del Consiglio ha già avuto modo di dimostrare l’opinione che ha del Parlamento, senza alcuna eco significativa nella opinione pubblica.

Il Pinelli della Calabresi (E viceversa)

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
11/05/2009

gasparazzo
Napolitano ha invitato la vedova di Pinelli a celebrare il giorno della memoria con la vedova di Calabresi.
Un gesto umanamente importante.
Un gesto di riconciliazione.
Molto Mandela.
Anche troppo Mandela.
Voglia di essere polemici e di stigmatizzare la distanza fra i due.
Il primo, vittima innocente, ma proprio innocente, di una finestra dalle parti di via dei Giardini, in una Milano che non esiste più.
Il secondo, commissario integerrimo e vittima di un omicidio molto discusso.
Voglia di segnalare l’ingiustizia della memoria che non fa distinzioni.
Discorso molto Pasoliniano.
Inutile.
Probabilmente, l’aspetto su cui pensare è un altro.
Una equazione che non è certo stata ignorata dal Quirinale.
Celebrare Pinelli nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo significa riconoscere che anche lui è stato una vittima del terrorismo.
Che quella finestra della Questura di Milano è stata un’arma terroristica non meno della pistola che ha ucciso Calabresi o della bomba che in Piazza Fontana ha aperto la strategia della tensione.
Dire: "Questo ‘Giorno della Memoria’ offre l’occasione per accomunare nel rispetto e nell’omaggio che è loro dovuto i famigliari di tutte le vittime – come ha detto con nobili parole Gemma Calabresi – di una stagione di odio e di violenza. Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine" significa ammettere che Pinelli è stato una vittima di Stato.
Che in Italia vi è stato un terrorismo di Stato e che Giuseppe Pinelli ne è stato vittima.
E questo, ad oggi, non era ancora stato detto.
Tanto meno dal Capo dello Stato.

La repubblica di Berlusconi

12 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
27/04/2009

CalamandreiBerlusconi ha parlato ad Onna della resistenza.
Ha accettato la retorica resistenziale del fazzolettone tricolore.
Chiarendo che meritano pietà anche coloro che in buona fede sono caduti dalla parte sbagliata di una guerra civile.
Scalfari ha applaudito nella omelia settimanale che pubblica ogni domenica in forma di fondo.
Il Giornale ha applaudito Scalfari nel fondo del lunedì.
Siamo tutti più vicini adesso.
Tutti più lontani dalle cesure del 1944 – 46 e della Prima Legislatura Repubblicana.
Così, Franceschini, che seguendo la pista Scalfari sta studiando l’ipotesi partito unico: il PCI_PDS_DS come corrente del PdL.
Cazzate.
Il vero punto è che il Presidente del Consiglio dei Ministri ha annunciato il ritiro di un disegno di legge di iniziativa parlamentare (Barani ed altri).
Violando le prerogative costituzionali del Parlamento.
Sacrificando il diritto di ogni parlamentare di presentare un disegno di legge (71, Cost.) e il divieto di mandato imperativo (67, Cost.), sottolineati da Bocchino e Cicchitto in una nota congiunta poche ora prima della esternazione berlusconiana.
Se questo non è fascismo, ci si avvicina parecchio.
E se i parlamentari del PdL avessero un rigurgito di dignità, dovrebbero prepararsi ad un Aventino.

Un mercato democratico

8 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
21/04/2009

NapolitanoLa settimana scorsa è stata resa nota una lettera inviata dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio e ai Presidenti dei due rami del Parlamento.
In questa lettera, il Presidente della Repubblica si lamentava dell’abitudine del Governo di utilizzare la conversione dei decreti legge per ottenere la approvazione di testi normativi estranei al contenuto originale del decreto legge.
In pratica, il Governo, attraverso i parlamentari della maggioranza, utilizza le corsie accellerate della conversione dei decreti legge per ottenere la approvazione di disposizioni che non vuole né inserire nel testo originale del decreto legge, per evitare il sindacato del Capo dello Stato, né assoggettare alla procedura normale di esame delle Camere, che viene considerata eccessivamente lunga.
Il vantaggio di questa procedura, inoltre, sta nella inevitabile restrizione del potere del Capo dello Stato di rinvio delle deliberazioni legislative, tradizionalmente molto prudente nel caso di leggi di conversione di decreti legge, a causa delle rigidità imposte dall’art. 77, Cost., che prevede la decadenza ex tunc del decreto legge in caso di mancata conversione entro sessanta giorni.
Sul piano del diritto costituzionale, si potrebbe parlare molto a lungo delle possibili modifiche ai regolamenti parlamentari (alcune proposte da Chimenti sono estremamente interessanti) e delle limitazioni al potere di rinvio di cui il Capo dello Stato dovrebbe essere egualmente titolare, senza subire alcuna compressione anche nel caso di leggi di conversione o convalida.
Ma non interessa questo.
Interessa fermare l’attenzione sull’ultimo comma dell’art. 7, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, come convertito dalla legge 9 aprile 2009, n. 33.
Prima di tutto, la conversione è caduta nell’ultimo giorno di vigenza del decreto legge: il Capo dello Stato aveva le mani istituzionalmente molto legate nella promulgazione.
Secondo, l’articolo è intitolato "Controlli fiscali", ma non parla solo di controlli fiscali. Anzi, parla di molte altre cose.
Terzo, l’art. 7 del decreto legge contava 234 parole, dopo la conversione_trasfigurazione_maquillage ne conta 1895. Esso, perciò, dà perfetta consistenza alle critiche del Capo dello Stato.
Quarto, l’ultimo comma modifica l’art. 2357, c.c., in punto di limiti al possesso di azioni proprie da parte di società che fanno ricorso al mercato. Le azioni proprie sono le azioni che una società può acquistare anche se compongono il proprio capitale sociale. In questo modo, la società diventa proprietaria di se stessa. O meglio gli azionisti di controllo diventano un po’ più azionisti di controllo in danno degli azionisti di minoranza, che vedono il proprio diritto ai dividendi decurtato di quanto necessario all’acquisto delle azioni proprie. Normalmente, le azioni proprie servono come antidoto a scalate ostili: fanno parte del patrimonio sociale e in caso di una scalata si può immaginare che siano vendute solo se il gruppo di controllo della Società vede di buon occhio il potenziale acquirente.
Con questa modifica dell’art. 2357, c.c., il limite al possesso delle azioni proprie nelle società quotate passa dal 10%, che non è poco, al 20%, che è moltissimo, soprattutto in tempi di corsi borsistici ai minimi storici e di bilanci non altrettanto penalizzati dalla congiuntura.
In altre parole, il Governo, in una disposizione intitolata ai controlli fiscali, ha introdotto una formidabile norma a difesa di coloro che attualmente hanno il controllo di una società quotata.
Con un inevitabile danno alla democraticità del mercato, che invece vorrebbe tutte le società che decidono di aprirsi agli investimenti egualmente contendibili da parte di chiunque ne voglia assumere il controllo.
Anche se questo qualcuno si chiama Murdoch e la società si chiama Mediaset.
Ma queste sono chiacchere da professori di diritto costituzionale.

Tassare i ricchi per dare ai terremotati

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
17/04/2009

berlusindoneL’on. Berlusconi non ha ancora preso una decisione circa l’opportunità di introdurre una tassazione straordinaria sui redditi superiori a 120EuroMigliaia.
Come se in un sistema parlamentare, una decisione del genere spettasse al premier, in barba all’art. 72, quarto comma, Cost. e alle riserve di assemblea.
Però, forse, l’aspetto interessante di questo dibattito non riguarda la forma di governo, il neocesarismo berlusconiano, riguarda il valore della solidarietà all’interno di una cittadinanza unitaria.
Discorso difficile.
Parole difficili.
Far pesare la solidarietà solo sui più ricchi significa attenuare i doveri di solidarietà per i più poveri.
Può essere giusto in una chiave di giustizia sociale non estranea al combinarsi dei valori di cui agli artt. 2, 3 e 53, Cost.
Meno giusto se si osserva che il peso fiscale di un ceto equivale al suo peso politico.
I parlamenti sono nati nel momento in cui i grandi pagatori hanno chiesto di controllare come i denari rivenienti dalle loro tasse venivano spesi dal sovrano.
Non è un caso che questa proposta provenga da ambienti vicini al miliardario governante e che lo stesso miliardario governante stia ben attento a non appoggiarla troppo esplicitamente.
Fra Berlusconi e D’Alema ci sarà sempre una differenza fondamentale: il primo può dire al secondo che gli sta pagando l’auto blu, mentre il secondo non può affermare il contrario.
Una equa distribuzione della solidarietà è un necessario baluardo della democrazia.

Lezioni

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
18/03/2009

Berlusconi_IVCi sono giorni in cui uno prova a fare lezione.
Prova a spiegare le lente trasformazioni della costituzione materiale in un sistema a democrazia bipolare imperfetta.
Prova a chiarire la inesorabile trasfigurazione della forma di governo verso un sistema direttoriale, nel quale il ruolo del Parlamento come motore di sintesi politica primaria è oramai assolto dal Governo.
Prova a essere chiaro.
Ma non riesce a non accorgersi di tizio che si pulisce attentamente il naso (Levati le dita dal naso, imbecille, gli viene da urlare).
Di caio che cerca di tenere gli occhi aperti senza riuscirci, come una messa distratta dopo l’addio al celibato (Ieri, bagordi, vorrebbe dire – e, a un certo punto, lo dice).
Di sempronia che si netta le unghie con le forbicette e poi le smalta (Almeno non in prima fila, signorina, per favore, vorrebbe dire, ma sta zitto).
Sono giorni in cui ci si rende conto che non tutti, evidentemente, hanno una casa.
Perché se ce l’avessero, chi glielo farebbe fare di venire a sentire un idiota che cerca di inseguire il Freiheit und Einsamkeit di Humboldt?

Il Parlamento in Gran Consiglio

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
11/03/2009

313380pUwt_wBerlusconi ha proposto di far votare i capo gruppo parlamentari e non i parlamentari.
Appare una proposta radicalmente incostituzionale per le ragioni che Ainis illustra su La Stampa e che può essere motivato dalle ragioni di politique politicienne illustrate da Massimo Franco sul Corsera.
Sicuramente i gruppi parlamentari non hanno nessun potere sui parlamentari che vi aderiscono per effetto dell’art. 67, Cost.
Tuttavia, la proposta può non essere incostituzionale nel momento in cui i singoli parlamentari abbiano il diritto di manifestare il proprio dissenso rispetto al voto del capo gruppo e questo dissenso sia contabilizzato in sede di votazione.
Ma forse il punto non è questo.
Il sistema di rappresentanza politica disegnato dal divieto di mandato imperativo, ovvero dal principio per cui nessun parlamentare può essere vincolato alle istruzioni del partito o del gruppo al quale appartiene, è un sistema nel quale i singoli parlamentari, isolatamente considerati, rappresentano l’intera nazione.
Il voto non riguarda, nella purezza del disegno costituzionale, una lista, ma ha come esito di investire una persona e questa persona ha l’obbligo di rappresentare tanto chi l’ha votata che chi non l’ha votata agendo secondo la propria coscienza.
E’ un sistema che si allontana dalla rappresentanza e si avvicina molto alle teorie sulla rappresentazione e che, dal punto di vista della ingegneria elettorale, si sposa con sistemi maggioritari fondati su collegi uninominali o cerca sistemi proporzionali con voto di preferenza, del genere praticato fino al 1993.
Questo meccanismo assiologico si è pericolosamente incrinato con l’attuale legge elettorale, che da un lato ammanta il premier di un plusvalore di legittimazione democratica che gli è donato dal plebiscito sull’accordo di coalizione, e dall’altro lato allontana gli elettori dagli eletti per mezzo di un diabolico combinarsi di soglie di sbarramento, premi di maggioranza e liste bloccate.
Non è incostituzionale l’idea di far votare i capi gruppo.
Con alcuni accorgimenti potrebbe anche – forse – essere praticabile.
E’ incostituzionale il movimento ordinamentale che allontana il corpo elettorale dal Parlamento.
Lo stesso movimento che, in altri tempi, portò il Gran Consiglio a prendere il posto della Camera dei deputati.
Tempi, si dice, meno allegri.
Si dice.

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