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Tag Archive for: diritto di resistenza

Oltre Facebook / Cambridge Analytica…

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
21/03/2018

Il caso Facebook / Cambridge Analytica parla di cose vecchie e anche un po’ scontate.

L’uso da parte dei signori della rete dei dati relativi agli utenti per promuovere prodotti è noto.

Il fatto che le politiche in materia di privacy di Facebook abbiano consentito fino al 2014 agli sviluppatori di applicazioni di acquisire tramite le loro applicazioni dati relativi agli utenti e utili per la loro profanazione è forse meno noto ma comunque notorio.

Il fatto che un manager di una società che opera in maniera obliqua possa offrire a un cliente che desidera gettare discredito su di un avversario politico uno scandalo a fondo sessuale non è altro che una questione rilevante per il codice penale.

Eppure questa vicenda ha bruciato molto denaro in borsa e i mercati finanziari non operano per caso.

Il fattaccio che è venuto alla luce riguarda l’uso da parte di Cambridge Analytica di un numero imponente di profili di utenti che avevano rivelato le loro opinioni spontaneamente compilando dei test psicologici per influenzare delle manifestazioni elettorali.

Abbiamo così “scoperto” che su Facebook gli utenti tendono a costruire delle filter bubble e che queste filter bubble operano come echo cambers determinando il sorgere di cocoon informativi.

Cass Sunstein ha scritto un libro su questo, tradotto in Italia da Il Mulino con il titolo #Republic.

In altre parole, le persone vogliono leggere le notizie che gli interessano, chiudendosi in delle stanze in cui ricevono solo ciò che vogliono leggere (filter bubble), che in queste stanze le opinioni più estreme tendono ad affermarsi: i suprematisti ariani quando parlano fra suprematisti ariani sono più estremisti di quando manifestano le loro opinioni in pubblico (echo chambers) e che questi bozzoli di informazione (cocoon), in cui gli utenti della rete tendono a segregarsi scegliendo le loro amicizie, sono pericolosi per il pluralismo.

Insomma, abbiamo scoperto che quando la Corte costituzionale affermava che la libertà di informazione è la «pietra angolare dell’ordine democratico» (Corte cost. 84/1969) diceva una cosa che sulla rete è molto meno vera che nella realtà fisica.

Nella rete, la libertà di informazione può essere pericolosa per la democrazia proprio perché è affidata a tutti (è decentrata e disintermediata, ma non per questo è resa più democratica) e non tutti sono in grado di esprimere pensieri interessanti per lo sviluppo di un discorso democratico.

L’applicazione delle regole sulla responsabilità dei provider

Il punto è che l’applicazione delle regole in materia di responsabilità degli internet service providers, in virtù delle quali il provider non è responsabile del contenuto che ospita, ai social media, che non sono internet service provider, perché organizzano i contenuti che ospitano e li orientano secondo le loro politiche aziendali, determina dei seri rischi per il discorso democratico.

E’ quello che hanno notato con intelligenza e acume da molto tempo studiosi come Sunstein o come Balkin, ma anche come Gillespie e l’elenco potrebbe essere lungo.

In questa situazione, i mercati hanno capito che i social media non potranno continuare ad operare come signori della rete, liberi di decidere le loro politiche, ma si dovranno in qualche misura sottomettere alla sovranità degli Stati e la sovranità degli Stati ridurrà i loro profitti.

O forse hanno capito che i social media non potranno fare a meno di anticipare le normative statali adottando delle politiche aziendali trasparenti e in grado di evitare disfunzioni come la censura collaterale, di cui si parla da molto tempo.

O magari hanno intuito che il potere dei signori della rete sta diventando l’oggetto di una forte critica sociale e che questa critica sociale spesso viene direttamente da coloro che operano all’interno delle organizzazioni aziendali messe a punto dai signori della rete.

Ma cosa sono i social media per l’art. 21, Cost.?

In realtà, i social media non sono mezzi di informazione nel senso tradizionale di questa espressione, ma sono semplicemente dei contenitori per la libertà di manifestazione del pensiero, funzionano in maniera molto più simile a spazi privati aperti al pubblico che vi si riunisce consapevole del fatto che in questi spazi si deve rispettare la disciplina imposta dal loro proprietario, esattamente come chi va in un bar deve rispettare le regole di polizia imposte dal suo proprietario, che gli può dire di bere meno o di parlare a voce meno alta e perfino allontanarlo se non è in grado di rispettare le regole della casa.

L’aspetto più interessante di questa vicenda è che non è emersa grazie alla rete, la rete non ha rivelato nulla di Cambridge Analytica e della sua influenza per le competizioni elettorali. E’ stato il giornalismo investigativo del New York Times e del Guardian che ha consentito all’opinione pubblica di venire a sapere quello che stava accadendo.

Come nel caso di Weinstein, che avrebbe facilmente ottenuto l’oblio delle notizie che lo riguardavano se queste fossero state postate su Facebook o su un blog, grazie alla regole del notice-and-takedown, che è tipica della responsabilità del provider.

Una rivoluzione imminente?

L’aspetto più interessante è che i giornali sono ancora vivi e per ora fanno ancora il loro lavoro.

La cosa, invece, più preoccupante è che la presenza dei giornali è minacciata seriamente dalla rete e la rete, al contrario della carta stampata, non è affatto trasparente.

Se questa preoccupazione diventasse condivisa, il mondo della rete diventerebbe il campo di una rivoluzione, forse meno cruenta di quella del 1789, ma non meno significativa per le sorti dell’umanità.

Su questo si deve riflettere. Non sulla profanazione della privacy degli utenti che sono stati chiusi nelle echo chambers in cui loro stessi desideravano essere rinchiusi.

Oggi, e da tempo, questo non è più possibile, mentre è possibile analizzare i big data costruendo i profili degli utenti senza violare la loro privacy e, forse, anche condizionando le competizioni elettorali con la scelta dei candidati da votare usando lo stesso algoritmo con cui Netflix ci consiglia una nuova serie, azzeccando quasi sempre i nostri gusti, ma senza farci vedere nulla di nuovo.

La fiducia di Gentiloni e la legge scout

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
27/10/2017

La legge elettorale merita fiducia?

Gentiloni non è uno scout e la legge elettorale non merita fiducia.

Il primo articolo della legge scout suona più o meno come lo scout pone il suo onore nel meritare fiducia, nelle parole del fondatore – sir Baden Powell -, A scout is trustworthy.

La legge elettorale non meritava la questione di fiducia del governo che è legittima sul piano costituzionale e sul piano della tattica parlamentare ma che non appare opportuna sul piano politico e dell’onore del governo.

Sul piano costituzionale non è scritto in alcun luogo che le norme in materia elettorale non possano essere oggetto di una questione di fiducia e sul piano della tattica parlamentare è più che ragionevole che le ragioni del calendario e quelle della politica portino il governo a porre la questione di fiducia sulle norme in materia elettorale.

Non vi è nessuna rottura della legalità costituzionale e invocare i precedenti di Mussolini o di De Gasperi, ma anche di Berlusconi e Renzi ha poco senso.

Lo ricorda Giovanni Guzzetta sul Dubbio che sottolinea la struttura politica della legge elettorale e perciò definisce come fisiologica la questione di fiducia.

Lo penso anche io e, perciò, mi pongo qualche problema.

Piccoli problemi

Porre la questione di fiducia significa stabilire come conseguenza necessaria ed inevitabile del voto contrario del Parlamento le dimissioni del governo perché il governo chiede di meritare fiducia in quel voto.

Il governo merita fiducia, nel senso della legge scout, quando una proposta rispecchia i valori politici che intende proporre alla nazione come basi della convivenza.

La questione di fiducia, in altre parole, ha un valore tattico collegato alla vita parlamentare del governo e un valore strategico in cui il governo indica al paese i valori in base ai quali si considera meritevole di svolgere la propria funzione di guida dello Stato.

Sul primo piano, non c’è davvero niente da dire.

Sul secondo piano, forse, qualcosa da dire c’è: il governo ha posto la questione di fiducia su di una legge elettorale che ha come effetto principale quello di rendere inevitabili accordi di coalizione e maggioranze deboli.

Una legge che fa tornare indietro nel tempo e che sembra appartenere al patrimonio genetico del presidente del consiglio.

Però le leggi non sono macchine del tempo e non acquistano questa efficacia nemmeno grazie a una questione di fiducia.

Una sconfitta palese e una vittoria implicita

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/10/2017

Una sconfitta palese

Il senso di una sconfitta palese è che diventano eroi anche i soldati che portavano le pignatte.

La sconfitta palese è quella subita nel referendum lombardo veneto.

Sia in Veneto che in Lombardia è emersa con forza la volontà delle popolazioni locali di gestire le risorse che genera il territorio direttamente.

Questa è una sconfitta palese dello Stato centrale.

La volontà popolare rinforza i governi regionali lombardo e veneto, che sono già forti di una legittimazione popolare diretta, grazie all’elezione dei loro presidenti, e di una stabilità sostanzialmente di legislatura, grazie alla regola simul stabunt simul cadent.

La forza dei governi locali trova una controparte assai debole: la riforma elettorale attualmente in gestazione non è fatta per creare un indirizzo politico legittimato direttamente dal corpo elettorale, ma per restaurare una forma di governo parlamentare in cui la doppia fiducia e le geometrie variabilmente asimmetriche delle due camere rendono il Capo dello Stato arbitro di equilibri politici instabili e che possono portare a elezioni anticipate con una frequenza d’altri tempi.

E una vittoria implicita

In questo referendum hanno vinto anche i marmittoni.

I marmittoni, in questo caso, sono i quesiti referendari che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali con la sentenza 118/2015 perché violavano gli artt. 75, 116 e 119, Cost. nonché con le norme dello Statuto del Veneto che regolano i referendum consultivi.

Questi quesiti suonavano (art. 1, legge reg. Veneto 15/2014):

1) “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”;
[2) “Vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?”;
3) “Vuoi che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale?”;
4) “Vuoi che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione?”;
5) “Vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale?”]

L’approvazione dell’unico quesito salvato dalla Corte, sul piano politico, ha il significato dei quattro quesiti che la Corte ha considerato inammissibili perché la maggiore autonomia che Veneto e Lombardia chiedono riguarda essenzialmente il cd. residuo fiscale e quindi una autonomia pressoché costituzionale di queste due regioni.

Il governo della Repubblica difficilmente potrà negare ingresso a questa istanza e dovrà inventare un nuovo tipo di regionalismo.

Ma tutto questo può cadere sulle spalle di un governo fragile come quello che la nuova legge elettorale consegnerà alla prossima legislatura repubblicana?

Il referendum del Lombardo Veneto fra Corte costituzionale e Tribunal Constitutional

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
18/10/2017

La prossima domenica i cittadini del Lombardo Veneto saranno chiamati a rispondere su di un quesito assolutamente vago.

Gli viene chiesto se vogliono maggiore autonomia nei limiti di quanto previsto dall’art. 116, terzo comma, Cost.

Per la Corte costituzionale, sentenza 118/2015, il referendum non è illegittimo dal punto di vista costituzionale perché la richiesta di maggiore autonomia nei limiti di quanto previsto dalla Costituzione è ammissibile secondo la Costituzione e perché l’esistenza di un referendum consultivo non sarebbe preclusa dal procedimento tipizzato dall’art. 116, Cost.

Nessuno dei due argomenti coglie nel segno.

Il primo perché una richiesta di maggiore autonomia senza specificare in che cosa consiste la maggiore autonomia richiesta non è una domanda a cui si possa rispondere formulando una scelta di indirizzo politico.

E’ una domanda a cui si risponde senza dire nulla e quindi dicendo troppo.

Il secondo argomento non coglie nel segno perché l’esistenza di un procedimento regolato a livello costituzionale esclude qualsiasi alterazione del procedimento come tipizzato nella Costituzione.

Se la Costituzione prevede che la maggiore autonomia concessa alle regioni debba essere oggetto di una intesa fra Stato e regione interessata, l’intesa è il punto di arrivo di una negoziazione fra il governo statale e il governo regionale.

Il significato di questa negoziazione è alterato dall’esistenza di un referendum che dota di un plusvalore di legittimazione democratica la posizione regionale.

Nello stesso tempo, la Costituzione prevede che la maggiore autonomia debba essere approvata con una legge dello Stato votata a maggioranza assoluta da entrambe le camere.

In questo procedimento, le Camere sono chiamate ad referendum sulla maggiore autonomia regionale e l’intervento del corpo elettorale regionale contraddice il ruolo del Parlamento, prefigurando un conflitto fra corpi elettorali locali e rappresentanza politica regionale che sarebbe molto opportuno evitare.

Il referendum nel tessuto costituzionale ha il ruolo di un correttivo per l’indirizzo politico manifestato a livello di rappresentanza politica, se assume un ruolo propulsivo per delle decisioni rilevanti dal punto di vista della forma di Stato diventa in un certo modo eversivo del disegno costituzionale.

Il Tribunal Constitucional, in Spagna, dove il problema catalano è assai diverso, ha annullato la legge che istitutiva il referendum sulla base di un argomento costituzionalmente ineccepibile:

“un poder que niega expresamente el derecho se niega a sí mismo como autoridad merecedora de acatamiento”

Perché, in Italia, dove un vero problema di secessione non esiste, dobbiamo crearcelo con dei referendum chiaramente inammissibili e una giurisprudenza costituzionale, questa volta, incomprensibilmente arrendevole verso le ragioni di un’autonomia smaccatamente populista?

Se la Corte costituzionale avesse applicato gli stessi principi del Tribunal Constitucional avrebbe dovuto ammettere che la regione Lombardia e la regione Veneto con il loro referendum violavano la Costituzione e quindi negavano a se stesse le prerogative in base alle quali possono essere considerate meritevoli di obbedienza da parte dei loro cittadini.

 

La fiducia sulla legge elettorale: Gentiloni non è De Gasperi

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
11/10/2017

Fiducia sulla legge elettorale

Le opposizioni hanno denunciato la decisione del governo come politicamente e costituzionalmente scorretta e le diverse anime della maggioranza si sono trovate in imbarazzo: nei giorni scorsi il governo aveva più volte fatto capire di non avere alcun desiderio di far diventare la legge elettorale un elemento del proprio programma.

Sul piano costituzionale, il Governo può porre la fiducia sulla legge elettorale.

Tutti rammentano il precedente di De Gasperi che pose nel 1953 la questione di fiducia sulla legge truffa, anche se pochi sottolineano la distanza fra De Gasperi, che al termine della prima legislatura repubblicana voleva un premio di maggioranza per governare da solo la seconda legislatura, e Gentiloni, che ha sempre tenuto un profilo lontano dalle dinamiche di lotta elettorale e si è sempre distinto dal segretario del partito di cui fa parte.

La legge elettorale come oggetto di una mozione di fiducia

Il governo si è impegnato a dimettersi nel caso in cui non venisse approvata una legge elettorale che è identica per Camera e Senato e prevede:

  • un voto unico a ciascun elettore che vale come opzione per un pacchetto formato da un candidato in un collegio uninominale e una lista bloccata corta in una circoscrizione plurinominale;
  • se più liste sono collegate a un solo candidato uninominale, i voti attribuiti al candidato uninominale vengono divisi fra le liste in proporzione ai voti complessivamente ricevuti da ciascuna lista;
  • coalizioni omogenee sul piano nazionale;
  • alla Camera, 232 collegi uninominali; 12 collegi esteri, in cui non cambia nulla; 386 seggi che vengono suddivisi proporzionalmente fra le liste con il metodo del quoziente e uno sbarramento del 3% per le liste e del 10% per le coalizioni;
  • al Senato, come alla Camera, ma la somma è fra 112 (senatori uninominali); 6 (senatori stranieri) e 193 (senatori proporzionali).

Si può discutere a lungo della ragionevolezza di questo sistema elettorale.

Dal punto di vista di chi scrive, non è ragionevole un voto unico per un pacchetto inscindibile formato da un candidato uninominale e una lista proporzionale: sono due logiche di voto diverse, perché una guarda alla persona e l’altra alla formazione politica. Ma mi pare una tecnicalità.

Questo sistema elettorale certifica il termine della stagione della ingegneria elettorale, in cui si cercava di risolvere il problema della governabilità con una formula elettorale.

Con questo sistema, la governabilità diventa una questione parlamentare e torna centrale il ruolo del presidente della repubblica come facilitatore e organizzatore di maggioranze politiche.

Da questo punto di vista non sembra inappropriato che Gentiloni ne sia lo sponsor.

La fiducia nella tattica parlamentare

La fiducia nella tattica parlamentare evita il voto segreto, perché deve essere votata a scrutinio palese e per appello nominale; determina il contingentamento dei tempi e, perciò, la riduzione del numero degli interventi ; fa cadere gli emendamenti.

Il contingentamento dei tempi e la riduzione degli interventi non sembrano un problema: il nostro parlamento non ha bisogno di discussioni sterili. Ha bisogno di interventi rapidi ed efficaci, coerenti con una stagione in cui il dibattito politico ha più la forma del tweet che quello di un discorso di Cavour.

Gli emendamenti sono, soprattutto in materie politicamente incandescenti, più uno strumento di ostruzionismo che non di dialogo.

Il voto palese è un valore perché permette al popolo di conoscere il comportamento dei propri rappresentanti e gli agguati dei franchi tiratori agevolati dal voto segreto non sono la parte migliore della nostra storia parlamentare.

Tuttavia anche il voto segreto è un valore e non soltanto perché assicura la libertà di coscienza del votante ma soprattutto perché impedisce agli elettori di sapere chi ha votato quella legge elettorale e quindi rende la legge elettorale il risultato della volontà popolare e non di una maggioranza storicamente determinata, come sarà in questo caso.

Così è stato fino all’età di Craxi per il voto finale sulle leggi e così, forse, sarebbe il caso che continuasse ad essere anche per leggi come quella elettorale che tendono a conformare la forma di governo.

Ponendo la questione di fiducia, oggi e non nel 1953, il Governo Gentiloni ha dichiarato che la legge elettorale è un problema che deve essere risolto dall’indirizzo politico di maggioranza, esattamente come fece nel 1953 De Gasperi suscitando un’aspra reazione da parte di Togliatti e del movimento socialcomunista.

La novità è che la scelta di De Gasperi mirava a un sistema parzialmente maggioritario e orientato verso una governabilità monocolore.

La scelta di Gentiloni è orientata in direzione diametralmente opposta.

Gentiloni non è De Gasperi (anche se De Gasperi era di casa a Palazzo Gentiloni)

Gentiloni non è De Gasperi.

Non ha posto la questione di fiducia su una legge elettorale che mira a favorire la formazione di maggioranze stabili e coese per effetto del voto degli elettori.

Ha posto la questione di fiducia su una legge elettorale che appartiene al DNA del suo governo perché colloca il baricentro della formazione delle maggioranze di governo fra il parlamento e la presidenza della repubblica.

Il vero senso di questa ipotesi di legge elettorale, se venisse approvata, è il termine della stagione politica in cui si intendeva restituire lo scettro al principe attraverso marchingegni di ingegneria elettorale e il ritorno a una politica che si fa fra le segreterie dei partiti e i gruppi parlamentari, incontrando talvolta e quasi per disavventura il confronto elettorale.

Ma i tempi sono cambiati e questa ipotesi di legge elettorale potrebbe assomigliare a quel che fu il congresso di Vienna non tanto per Napoleone ma per i moti rivoluzionari del 1848.

Pericolose assonanze: il Lombardo Veneto alla prova di un referendum catalano

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
09/10/2017

Il referendum catalano e la legalità costituzionale

1 – Il problema dell’indipendenza catalana, o più propriamente della via catalana all’indipendenza, non può essere visto come una questione di legalità costituzionale.

Un referendum che ha per oggetto la rottura del patto territoriale e l’indipendenza di una frazione del territorio è di per sé incostituzionale.

Questo, però, non significa che non si può fare, significa solo che funziona se riesce a diventare un fatto costituente di un nuovo ordinamento giuridico e gli ordinamenti giuridici nascono con la forza di chi li impone, non attraverso procedure democratiche.

In altre parole, non ha molto senso interrogarsi sui numeri della consultazione catalana.

Ha senso chiedersi che cosa succederà quando sarà dichiarata l’indipendenza: il governo Spagnolo ha solo l’uso della forza per restaurare la legalità e la nazione catalana può rispondere all’uso della forza da parte del governo spagnolo solo con il diritto di resistenza.

Vincerà chi avrà la forza di imporre la propria volontà all’altro e, comunque, perderà la costituzione spagnola e la stessa idea di legalità costituzionale.

Sotto questo aspetto, il referendum catalano non ha niente a che vedere con il referendum lombardo veneto sull’autonomia regionale, che si svolge su di un quesito che è stato avallato dalla Corte costituzionale.

Il significato politico del referendum catalano

2 – Il vero significato politico del referendum catalano riguarda la volontà di una collettività ricca di partecipare con la propria ricchezza al benessere dell’intera nazione.

Il problema, che è comune alle tensioni che emergono in tutta Europa, riguarda il significato della solidarietà come fondamento di una comunità nazionale, alla quale si partecipa perché si ritiene che sia giusto contribuire con il proprio benessere alla eguaglianza di chi è meno cittadino di noi perché ha meno possibilità di noi.

I doveri di solidarietà sono uno dei fondamenti della sovranità statale, forse uno dei fondamenti più forti e necessari: si è cittadini di uno Stato nel momento in cui ci si rifiuta di accettare l’idea che altri cittadini siano meno fortunati di noi e si è disposti a sacrificare una parte del nostro benessere per rimuovere gli ostacoli che impediscono a questi cittadini di godere dei nostri stessi diritti.

E’ questa idea di solidarietà statale che tende a logorarsi sempre di più e che deve invece essere promossa.

Qui, forse, chi ha maggiormente contribuito al logoramento dell’idea di sovranità statale fondata sulla solidarietà, è stata l’Unione europea e la considerazione dei valori eurounitari all’interno della politica economica che è tipica del patto di stabilità e crescita.

Il patto di stabilità e crescita costringe chi è più ricco a subire il peso di chi è più povero, indebolendo i valori politici della politica economica.

Le delibere consiliari e di Giunta che hanno approvato i quesiti nel referendum lombardo veneto enfatizzano il concetto di residuo fiscale, inteso come differenza fra il gettito fiscale generato dalla regione e la sua ricaduta sul territorio.

Sotto questo aspetto, il significato politico del referendum lombardo veneto è molto simile a quello catalano: tramonta una idea di comunità nazionale fondata sulla solidarietà.

Il pericolo dei concetti vaghi

3 – Il quesito referendario su cui il popolo lombardo veneto sarà chiamato a pronunciarsi il 22 ottobre 2017 è assai vago: si chiede ai cittadini se vogliono maggiore autonomia e le relative risorse, nell’ambito di quanto consentito dall’art. 116, terzo comma, Cost.

E’ talmente vago da far giudicare non molto ragionevole il voto: se si applicasse la giurisprudenza costituzionale sulla necessaria omogeneità e chiarezza dei quesiti, perché necessaria a dare un significato univoco alla consultazione popolare, sarebbe facile dire che il referendum non è ammissibile.

Però, al di là delle sottigliezze giuridiche, non è per niente vago il suo significato politico che riguarda la destinazione del residuo fiscale delle regioni più ricche a favore delle regioni più povere.

Forse, l’esito del referendum è scontato: nessuna persona ragionevole può votare contro una richiesta di maggiore autonomia e di maggiori risorse.

Il punto, però, non è questo.

Il punto è la credibilità dello Stato centrale nella costruzione delle decisioni di finanza pubblica. Le decisioni di finanza pubblica sono credibili se sono esercizio di una rappresentanza che sa trasformare dei valori politici improntati alla solidarietà in una manovra economica.

Se questa credibilità manca, cade il progetto statale e non perché ci sono spinte antisistema e degli indipendentismi venati di demagogia, ma perché la sovranità statale non riesce a essere espressione di valori condivisi da parte della collettività.

E’ la sfida che la Spagna ha perso con il referendum catalano ed è molto difficile che sia vinta in Italia il prossimo 22 ottobre.

Purtroppo.

 

 

Non è facile da spiegare (A proposito dei concorsi truccati)

3 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
28/09/2017

Concorsi Truccati

Non è facile da spiegare il problema dei concorsi truccati per l’accesso all’insegnamento universitario nel settore del diritto tributario.

Non è facile se si conoscono, per varie ragioni, molte delle persone coinvolte in questo affare e di alcune si è più che amici e si intende sostenere una tesi controcorrente.

Non fare l’inglese

L’inizio di tutto è una registrazione in cui il maestro spiega all’allievo che non potrà vincere il concorso e che, in questa situazione, per evitare la bocciatura è preferibile lasciar cadere la domanda.

L’allievo ritiene di non meritare una bocciatura, cerca di resistere, il maestro gli dice di non fare l’inglese, perché la mamma dell’allievo è inglese e lo è anche la sua cultura.

Sono cose che non si dicono e non perché non si devono dire ma anche perché non si devono fare.

Non si può dire a una persona di rinunciare a un concorso per ragioni di opportunità tattica diverse dal merito e dai valori in gioco perché non si può alterare – in un concorso – la logica del merito e dei valori in gioco.

Ritirarsi in un concorso può essere meglio che essere giudicati negativamente e se l’allievo avesse corso il rischio di essere respinto con un giudizio negativo dalla Commissione, il suo maestro lo avrebbe dovuto avvertire e consigliare di ritirarsi.

Non dicendo che era il più bravo, dicendo che altri erano più bravi e spiegando – con la necessaria autorevolezza – le ragioni per cui l’allievo correva il rischio di non essere giudicato positivamente.

In tutto questo, c’è un’avvertenza che, forse, chi ha trascritto le intercettazioni e le ha generosamente girate ai giornali ha ignorato. Nel linguaggio dell’università, non solo quella italiana, le parole non esprimono mai il significato che hanno nella vita comune. Quando ti viene detto che hai studiato e che sei una persona intelligente, ma che avevi bisogno di completare la tua preparazione, ti viene semplicemente detto che devi tornare al prossimo appello. Ma con la cortesia che ti evita di sentirti umiliato dalla bocciatura e che consente a chi ti ha interrogato di proseguire senza dover ascoltare le tue proteste.

Sicuramente non era questo il caso, ma vale la pena segnalare questa possibilità, visto che l’intercettazione è stata captata a Firenze e chi teorizzava questo modo di respingere gli studenti più pigri era il maestro dell’autore della frase incriminata, almeno secondo certe fonti orali.

L’anatomia dello scandalo

Lo scandalo è nelle parole di uno dei decani della materia: il prof. Augusto Fantozzi. Si dovrebbe creare una cupola che sia di garanzia per tutti coloro che intendono accedere alla carriera universitaria.

Qui il discorso è particolarmente complesso e rischia di essere più controcorrente di un salmone a pois.

Chi decide di fare la carriera universitaria decide di investire qualche decina di anni della sua vita su una strada che potrebbe non arrivare in nessun luogo e lo fa perché ci crede.

Ci sono due cose che deve dimostrare: di essere in grado di affrontare un problema scientifico in maniera seria e originale e di essere in grado di insegnare ai suoi studenti in maniera seria e comprensibile.

Il resto sono, onestamente, baggianate che possono essere considerate secondarie rispetto a questi due doveri.

Non si dimostra di essere degli scienziati e dei professori in pochi giorni e un concorso, probabilmente, rischia di essere illusorio, perché premia la persona che ha avuto la fortuna di trovare una traccia fortunata e non quella che ha studiato seriamente per tutta la vita ma è incappato in una giornata di febbre alta.

Dal punto di vista di un maestro, un concorso rischia di travolgere anni di lavoro e di premiare una persona che appena vinta la cattedra scompare, perché fare il professore è come fare il prete: ci si può ammazzare di fatica ma si può anche non fare nulla per tutta la vita incassando uno stipendio magro ma certo.

Per il precario che si gioca tutto con il concorso è ancora peggio. Ha investito tutta la sua energia intellettuale seguendo un maestro che gli ha consigliato degli ambiti di ricerca, ha suggerito dei metodi di analisi, ha corretto i suoi lavori via via che venivano scritti e, infine, ha fatto in modo che venissero pubblicati e, possibilmente, anche letti.

In ambito giuridico, ma il discorso vale per ogni settore non bibliometrico e forse anche per quelli bibliometrici, è facile demolire in buona fede il lavoro di un giovane. Ci sono scuole che hanno un approccio al diritto completamente diverso da quello di altre scuole. Per alcuni, il diritto costituzionale è scienza della politica e per altri è diritto processuale, per fare un esempio. Se un cultore del diritto come processo incappa in una commissione di cultori del diritto come storia politica, rischia di ricevere un giudizio negativo.

Questo giudizio negativo non riguarda il giovane studioso ma la scuola alla quale appartiene. Chi è stato indirizzato verso lo studio dal suo maestro ed è stato seguito dal suo maestro, deve anche essere tutelato dal suo maestro quando affronta le prove concorsuali.

Nessun maestro, né oggi e nemmeno ai tempi di Accursio o di Giustiniano, ha una verità vera e inoppugnabile. Ma ciascuno deve essere in grado di comprendere le ragioni degli altri e di giustificare le proprie.

Se si fa questo, non si partecipa a una cupola.

Si partecipa a una comunità scientifica, che è il mestiere di ogni docente universitario.

Non è più tempo di gentiluomini

I concorsi universitari sono da tempo oggetto di attenzione penetrante da parte della magistratura, sia di quella inquirente che di quella amministrativa, ed è giusto che dove ci sono dei fatti che integrano fattispecie di reato queste siano portate alla luce e che dove vi è un andamento delle operazioni concorsuali viziato da violazioni di legge o da eccessi di potere, questi concorsi siano annullati dal giudice amministrativo.

Vi sono delle precisazioni, però, anche in questo caso.

La prima è che se un giudizio è espresso in termini larvatamente positivi può darsi che la sua sostanza sia invece fortemente negativa. Le parole nell’accademia hanno un significato diverso da quello che hanno nel linguaggio comune e non sempre la magistratura, che non frequenta i consigli di dipartimento, è abituata a comprenderne le sfaccettature.

La seconda è che la magistratura, in questo paese, sta assumendo un ruolo sempre più dilagante, di supplenza sia del sistema politico che di quello amministrativo.

Nei concorsi universitari di un tempo era impensabile il ricorso al giudice, perché si sapeva che chi ci giudicava meritava fiducia per la sua levatura intellettuale e per le sue conoscenze del settore. I maestri erano maestri e la loro opinione meritava il massimo rispetto perché avevano davvero letto tutto e lo ricordavano anche, oltre che saperlo raccontare.

I maestri di oggi non sono più così. Sono gli epigoni di pensieri deboli, specialisti di microsettori, entomologi del diritto o, per usare un’espressione d’altri: cesellatori di cocomeri.

Se non si prova rispetto per chi ci giudica, si ricorre al giudice.

Probabilmente nelle materie giuridiche i giudici possono giudicare della preparazione dei docenti universitari e valutare se meritano di insegnare le materie che anche loro hanno studiato.

Forse il Tar del Lazio è più attendibile di una commissione del Miur per valutare l’idoneità dei professori di diritto tributario.

Ma sicuramente non di quelli di meccanica razionale e, forse, affidare anche il governo della università alla magistratura potrebbe essere pericoloso.

Nardella e la prostituzione (Nemo auditur propriam turpitudinem alligans)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
20/09/2017

Si ascolta chi si approfitta della legge per esercitare un commercio immorale?

Nardella nell’affrontare la prostituzione impone qualche osservazione anche a un costituzionalista e non solo a Vladimir Luxuria.

C’è un che di stridente nell’agganciare il divieto della prostituzione alla forza di una multa che viene notificata a casa (e quindi alla moglie del colpevole) e affermare che sarebbe ragionevole riaprire le case chiuse.

Nemo auditur propriam turpitudinem alligans è un antico brocardo latino.

Significa che nessuno può essere ascoltato se il suo diritto si fonda su un presupposto moralmente inaccettabile.

Non appartiene alla tradizione romana ma a quella canonica e ha tutto il sapore della sua ipocrisia. De Cupis lo utilizza nella sua opera sul risarcimento del danno per spiegare il caso in cui l’ingiustizia del danno discende da un’attività giuridicamente lecita ma moralmente inaccettabile.

Il proprietario di un appartamento accanto al quale viene autorizzata l’apertura di una casa chiusa può chiedere al titolare del bordello di essere risarcito del deprezzamento subito dalla sua proprietà: tolerantia lupanarum non abstergit meretricibus turpitudinem.

Di nuovo, il latino canonico e non quello romano.

Nardella e la prostituzione per strada

Nardella si è scontrato, da par suo, con il mondo di questi brocardi affrontando il tema della prostituzione.

Dapprima con una ordinanza nella quale punisce chi contratta per strada con una lucciola.

L’ordinanza appartiene al genere delle ordinanze contigibili e urgenti, che sono lo strumento con cui il Sindaco può fare fronte a situazioni talmente gravi da non poter essere oggetto di alcun altro intervento, e chi disobbedisce è punito perché non ha osservato un ordine legalmente dato.

Il presupposto di questa ordinanza è la situazione di grave degrado generata dalla prostituzione e il suo obiettivo, secondo il Sindaco di Firenze, dovrebbe essere la tutela delle donne e degli uomini costretti a fare commercio del proprio corpo.

L’oggetto dell’ordinanza è la contrattazione della prestazione sessuale come scambio di piacere contro denaro inteso come immorale.

Fin qui tutto bene, forse.

Perché le ordinanze contigibili e urgenti servono per far fronte a situazioni straordinarie e di una gravità che non tollera ritardi dal momento che alterano la struttura democratica del processo normativo.

La formazione di un divieto non discende dal Parlamento e dalla rappresentanza politica ma dall’urgenza: necessitas non habet legem e, questa volta, il latino è quello romano e non quello canonico.

Indubbiamente, vi è nel commercio del corpo di una persona costretta al proprio degrado dalla crudeltà della vita qualcosa di terribile che impone un intervento pubblico.

Nardella e le case d’appuntamenti

Il problema viene dopo.

Il problema viene quando Nardella dice che si può parlare di riaprire le case chiuse perché quel divieto avrebbe un che di ipocrita e perché non si potrebbe chiudere gli occhi dinanzi a un male sostanzialmente inevitabile.

Non può essere così: se il commercio del proprio corpo è moralmente (e costituzionalmente) inaccettabile, lo è sia per strada che in appartamento e l’autorizzazione all’esercizio della prostituzione significa costringere l’ordinamento giuridico ad accettare che una persona possa cedere la propria dignità contro una somma di denaro.

Vi è una contraddizione stridente fra l’ordinanza che vieta la prostituzione per strada in via contingibile e urgente e l’apertura politica verso una tolleranza per le case chiuse.

Non si può affermare che un negozio giuridico debba essere vietato se concluso per strada e ammesso se concluso in un appartamento.

La morale in casa può essere diversa dalla morale per strada?

La morale non cambia a seconda del luogo in cui ci si trova.

Forse, però, e dispiace dirlo il problema è la ricerca del consenso che, per Nardella, in questo caso, sembra molto più importante della ricerca dei valori e della morale.

La prima ordinanza ha strizzato l’occhio al mondo di quanti sono scandalizzati dall’esercizio della prostituzione e ha scontentato quanti apprezzano il piacere sessuale nel buio di un parcheggio di periferia.

Nardella si è accorto che votano anche questi e la sua apertura politica ha cercato il loro consenso.

Gli ha detto che il sindaco è il Sindaco di tutti, anche di quelli che vanno con le signorine e non vogliono farlo sapere a casa.

In questo modo, Nardella, che qualcuno chiama cavallo – il cavallo è l’unico che resta sempre in sella – alludendo alle sue abilità tattiche, finisce per assomigliare a una lucciola impazzita.

La morale non è l’educazione che ammette comportamenti diversi a seconda delle circostanze in cui si trova: la morale discende dai valori e questi, se ci sono, non ci sono solo per strada.

Ci sono anche in casa.

Lo stupro di Firenze e le verità di due carabinieri infedeli per una notte

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
14/09/2017

Le verità dei carabinieri sono spesso inquietanti.

I carabinieri rassicurano ma la loro presenza spaventa e non sono stati pochi i marescialli dell’Arma che hanno subito processi più o meno inquietanti, fra Firenze e il suo contado.

Lo stupro di Firenze, in realtà e purtroppo, poteva accadere solo a Firenze e, forse, questo aspetto non è al centro delle pagine dei giornali che si occupano di una verità ambigua: il capopattuglia che non si accorge dell’ubriachezza al limite del coma etilico delle due ragazze o il suo compagno che dice di avere fatto solo quello che gli veniva ordinato.

Lo stupro di Firenze è accaduto a Firenze perché a Firenze si sono concentrati migliaia di ragazzi americani che non vengono per studiare, ma anche per divertirsi e si divertono bevendo fino a perdere qualsiasi controllo (e limite) per il semplice fatto che non sanno bere e non hanno mai bevuto quando erano con le loro famiglie.

E’ la tragica conseguenza sia di un comportamento che, allo stato delle notizie di cronaca, appare ingiustificabile sia di due culture che faticano ad assimilarsi e anche a convivere.

Il pronto soccorso di Santa Maria Nuova – nel centro di Firenze – trabocca di studenti americani ubriachi a un livello inaccettabile per la nostra cultura e questo accade ogni notte.

Trecentosessantacinque notti all’anno.

La presenza delle università straniere a Firenze dovrebbe essere una occasione straordinaria per lo sviluppo culturale della città.

Ma non è sempre così. Spesso questi studenti sono semplicemente degli strumenti che producono reddito per i gestori delle discoteche e degli altri locali notturni in cui passano le loro notti etiliche.

Lo stupro di Firenze merita di essere severamente punito e i suoi colpevoli ne risponderanno dinanzi all’Autorità giurisdizionale.

Un episodio sostanzialmente isolato

Il montante di vomito alcolico che le notti fiorentine lasciano al servizio municipale di spazzamento delle strade invece è la realtà di tutte le mattine nel centro storico e anche questo merita un severo intervento, magari applicando quelle misure di prevenzione e sicurezza che erano tante care ai carabinieri di Pinocchio e all’Italia Umbertina.

Il primo è un male criminale e come tale deve essere trattato.

Il secondo è un male politico e come tale, purtroppo, non è trattato.

Parole e significati: esistono i sinonimi divergenti?

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
12/09/2017

Poema ferroviario

In Mosca – Petuski, Erofeev spiega che vi sono più di cinquanta sinonimi divergenti in russo per definire l’ubriachezza.

Più di cinquanta modi di essere ubriachi, a ciascuno dei quali corrisponde una esatta parola.

Lo stesso vale per Neve, in finlandese, secondo il Wagner di Luna di ghiaccio e per la parola Pietra in croato, secondo Radio 3.

Queste parole fissano un concetto talmente essenziale per quella cultura da riflettersi in diverse sfumature che a loro volta diventano concetti e perciò lemmi.

Non sono propriamente sinonimi, parole che hanno lo stesso significato di altre parole di cui possono prendere il posto per evitare ripetizioni, ma sinonimi divergenti: parole che ricordano uno stesso significato di altre parole e lo individuano con una diversa sfumatura.

Il contrario delle parole che possono avere più significati diversi e che affaticano i vocabolari di latino e greco del ginnasio, quando la fatica del tradurre era cercare di individuare un significato all’interno di un contesto in cui tutto poteva voler dire altro ed era semplice perdersi.

Mi sono interrogato a lungo sulla parola che può avere un così grande numero di sinonimi in italiano: la mia ignoranza mi ha impedito di svolgere la stessa indagine in lingue diverse.

In effetti, l’idea di ubriachezza identifica la cultura russa, come l’idea di amore è centrale nella Grecia classica, la neve individua una parte dell’anima del nord finlandese e la schiavitù della pietra è caratteristica del ruolo della Croazia nell’economia Ottomana.

Dopo tre o quattro notti insonni, sono arrivato alla conclusione che l’unica parola italiana con un così elevato numero di sinonimi divergenti si trovi esattamente al centro delle donne.

Il che dice molto della nostra cultura e, forse, anche di un Parlamento che invece di parlare di riforme elettorali si perde nelle discussioni sui vitalizi dei suoi membri, scambiando la Luna con il dito ma senza perdere il vero senso delle dita per il nostro vocabolario.

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