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Come una vecchia puttana

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
17/03/2008

E’ tempo di gite scolastiche.
Invadono la città.
Cavallette munite di ipod dietro a professori con le gambe gonfie.
Sporcano, ridono, giocano.
Possono farlo.
Devono farlo.
Ogni gita scolastica è un passaggio della nostra educazione sentimentale.
In un certo senso, indimenticabile ed insostituibile.
Non sono loro a dare fastidio.
Dà fastidio l’economia che li sfrutta, mungendoli come vacche.
Che vende una camera triste e sporca a prezzi stellari.
Che propone un gelato a otto euro nelle vicinanze del Ponte Vecchio.
Che trasforma i cappuccini in opere d’arte da cinque euro in piazza del Duomo.
Dà fastidio questo vendere la città come una vecchia puttana stanca che non ha nulla da offrire.
Che russa stanca mentre viene montata da un gruppo di marinai ubriachi.
Firenze non è uccisa dalle gite scolastiche.
E’ uccisa dai fiorentini che ci vivono sopra.
Senza nessuna pietà, cortesia o senso del decoro.

Pornazzi

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
13/03/2008

psv9182I pornazzi sono un momento importante nella educazione sentimentale di un adolescente.
Nella mia, abbastanza, ma in termini non manuali.
I cinema porno a Firenze erano quattro.
Uno più laido dell’altro.
L’Arlecchino stava sotto casa di un mio amico.
Passavamo i pomeriggi a puntare gli avventori più timidi.
Si aggiravano circospetti lungo il marciapiede.
Aspettavano un momento di calma per infilarsi dentro ed in quel momento il mio amico ed io iniziavamo a salutare a voce altissima: Ciao, ciao, ma che fai? Entri nel cinema porno? Brutto zozzone…
Al terzo spettatore messo in fuga, fummo costretti a smettere da una maschera molto convincente.
L’Italia era aperto al mattino.
Ma il mattino delle forche era dedicato al biliardo, sicché non ci sono mai stato.
Il Columbia era dietro al mercato centrale.
Andammo in banda a vedere un film particolarmente denso.
Quando lo schermo fu invaso dal primo piano di una vagina sterminata, il Bandini – all’epoca sedicente impresario di importanti gruppi heavy metal, come i Cocainomadi: tre apparizioni alla festa del vino di Greve – urlò: Nemmeno_i’_garage_del_mi_babbo, con una voce che pareva Ozzy Osbourne, e fummo accompagnati fuori dalla maschera che – ad onor del vero – ci rese i soldi.
L’Aldeberan era in aperta periferia.
Ci andammo in due.
Assolutamente perrsuasi a vedere la performance dall’inizio alla fine: il giornale titolava due spettacoli consecutivi per non meno di 180 minuti.
Ci tirammo su il bavero delle giacche e si fece per entrare.
Il mio amico, a testa bassa, non vide il vetro della porta e ci passò attraverso.
Una craniata terrificante.
Con ambulanza e quant’altro puntualmente indicato sul referto del pronto soccorso ai nostri, in quella circostanza, non particolarmente orgogliosi genitori.
Oggi per spararsi un pornazzo basta un computer collegato ad internet.
Sono seghe davvero molto più facili.

Coito ergo bus

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
14/02/2008

Firenze è una città sonnacchiosa.
I fiorentini – ricorda De Sade – sono personaggi inquietanti, malsani, malaticci.
La politica locale di Firenze è triste: non c’è da stare allegri nelle stanze che furono di Lorenzo il Magnifico.
Sono ambienti che rinfacciano a chi li abita la grandezza dei suoi antenati.
Dei Medici, a Firenze, è restata una insana passione per i veleni, una politica obliqua, fatta di accuse personali, di comunicati stampa, di giochi di potere complessi e quasi alchemici.
Ora si discute della tramvia.
Un progetto faraonico che cambia il volto della città, per alcuni la ferisce, per altri la guarisce.
In ogni caso, è intimamente discutibile.
Ora l’oggetto della discussione è la propaganda istituzionale del Comune: i totem (si chiamano così) che l’amministrazione ha usato per difendere l’opera pubblica da chi la ritiene inutile e dannosa.
Un ricorso al tar li ha sterilizzati e l’amministrazione si è sentita lesa.
Ma non è difficile sostenere che una democrazia matura non usa gli strumenti dello Stato apparato per difendersi contro la democrazia diretta.
Non è difficile affermare che una amministrazione non può usare i denari di tutti i cittadini per scendere in campo a favore di una posizione politica che appartiene solo ad una parte della comunità che rappresenta.
Lo slogan che usa l’amministrazione è cogito ergo bus.
Come dire che chi non usa il bus è un idiota.
Io uso la bicicletta e non mi sento per nulla cretino.

L’ultimo dei merdaioli

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
02/02/2008

Il merdaiolo è stato un mestiere.
Un mestiere piuttosto faticoso: si trattava di entrare dentro le fosse biologhe e scavare la merda, buttandola su un carretto per evitare che tracimasse.
Era l’ultimo dei merdaioli.
Aveva fatto questa vita e poi era stato messo da parte dalla tecnologia degli spurghi.
Era un uomo mite.
Piccolo.
Magro, di quella magrezza nervosa che svela una muscolatura feroce.
Fece l’imbianchino.
Senza fortuna.
Studiò a lungo per una patente da autista di bus.
La prese.
Vinse il concorso per guidare gli autobus di linea.
Diventò un autista ferocissimo.
Aveva un elevatissima considerazione per il codice della strada che utilizzava come se fosse una arma impropria: Il pedone non attraversa sulle strisce ed io accellero, Quella macchina non rispetta lo stop ed io ci vado contro, Quel tizio è in bicicletta sulla corsia preferenziale faccio del mio meglio per passarci sopra.
Il tutto finiva con qualcuno che si imbestialiva: Hai ragione ed io ho torto ma dovevi proprio venirmi addosso?
Le discussioni spesso degeneravano sul piano fisico.
Lo ricordo bene perché era il babbo di una mia compagna delle elementari e le sue liti diventavano fascicoli sulla scrivania di mio padre, che faceva il penalista.
Un giorno, avevo diciotto anni, si decise di andare ad una festa del vino poco fuori porta.
La macchina era una cinquecento.
Blu.
Lustra.
Bellissima.
Guidava il Bellotti, che considerava qualsiasi vettura come se lei fosse una Ferrari California e lui Steve McQueen.
Eravamo in cinque.
Tutti pregavamo il Bellotti di andare più piano.
Il Bellotti se ne fregava.
Ad un certo punto il Bellotti attraversò la strada ad un bus.
Il bus inchiodò.
Era il babbo della mia amica.
Invecchiato.
In altri tempi, ci avrebbe schiacciati.
Si limitò ad inchiodare ed a abbassare il finestrino: Vai piano, imbecille, disse.
Il Bellotti si fece tutto rosso.
Tirò fuori la testa dal finestrino.
Una testona da pupo.
Gridò: Se le teste di cazze volassero, tu saresti un’aquila; casa tua sarebbe un aeroporto e [per mangiare ci vorrebbe la fionda].
Non finì.
L’ultimo dei merdaioli era sceso e gli aveva appioppato un manrovescio a mano aperta in pieno viso.
Il Bellotti si limitò ad infilare nuovamente la testa da pupo, vistosamente arrossata, nella macchina ed a ripartire fingendo indifferenza.
Noi ci limitammo a scoppiare a ridere.
Il Bellotti lo abbiamo visto sempre più di rado, finché non è diventato uno dei tanti fantasmi che abitano i ricordi di quegli anni.

Via di casa

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
30/11/2007

Ha una quarantina d’anni.
Forse qualcosa di più.
Con la sua compagna le cose non vanno più da tempo.
Ma lei gli ha confessato di avere una malattia particolarmente antipatica.
Lui le resta vicino.
Come si potrebbe restare accanto ad un animale domestico sulla via del tramonto.
Lentamente lei guarisce.
Non era probabile, ma guarisce.
Comincia una lenta convalescenza.
Oramai lei sta quasi bene.
Abitano in un quartiere popolare del centro.
E’ quella parte di inverno che si avvicina alla primavera.
Lui comincia a non resistere più.
Lei gli è diventata insopportabile.
Come una coperta di lana in estate.
Una notte, le parla.
Lei afferra una bottiglia di plastica piena di acqua e comincia a picchiarlo.
Con calma e con metodo.
Lui aspetta pazientamente che si stanchi.
Si alza. Va via.
Lei urla.
Apre la finestra e gli armadi.
Comincia a lanciare dalla finestra tutto ciò che appartiene a lui.
Sotto, in mezzo alla strada, lui, in pigiama, afferra le cose al volo e le butta nel bagagliaio della macchina.
Alle finestre, una intera strada guarda la scena e qualcuno decide che una persona tanto paziente merita qualche lancio in più e comincia a lanciargli frutta, verdura e tutto ciò che sta nel secchio della spazzatura.

Iddio gliene renderà merito

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
28/11/2007

E’ un modo di dire grazie.
Ha una sua intima dolcezza.

Ricorda un tempo in cui il buon dio viveva in mezzo agli uomini. O meglio: gli uomini erano convinti che dio vivesse con loro.

Par di vedere il mendicante che saluta San Martino, dopo aver diviso il mantello.

Non lo sentivo usare da tanto tempo.

Mi è tornato in mente stamani, vedendo – era molto presto – un vagabondo che spazzava la strada.
Sono diventati almeno tre. Naufraghi in cerca dell’ultimo sole che vivono in angoli abbastanza precisi della citta’ e li tengono puliti.

Usano vecchie granate di saggina, vuoti secchi di vernice, ma anche cenci e detersivi. Spazzano, rigidi, ossequiosi, inventandosi maggiordomi di quel punto del quartiere.

E qualche anziano, passando, li saluta e dice: “Iddio gliene rendera’ merito”.

Gatto (essere fiorentini a Livorno)

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
14/11/2007

Essere fiorentini a Livorno non è mai divertente.
Occorrono anni prima di sentirsi dire: Dé, se’ proprio ‘n bravo bimbo, non pari nemmeno fiorentino.
pec_inTestaDalberoMa ci sono occasioni in cui potrebbe passare un secolo e si resterebbe fiorentini lo stesso.
Così è successo ad un disgraziato che aveva una barca ormeggiata in pieno Molo Mediceo.
Il suo albero si era incatagnato: le drizze non scorrevano ed era praticamente impossibile armare il genoa, che sarebbe la vela di prua.
Il disgraziato prova a salire in testa d’albero.
Non è facile e non ci riesce.
Naturalmente, come comincia i suoi tentativi la folla dei marinai sfaccendati (il marinaio livornese è uno dei più grandi lavoratori del mondo, basta convincerlo a lasciare il muro cui è appoggiato e nulla è meglio di un fiorentino al lavoro per farlo smuovere) comincia a guardarlo con interesse: Dé prova a salì ‘n testa d’arbero, cinque a uno ‘he batte ‘na grugnata da rammentà.
Il fiorentino si avvede di essere diventato (doventato, direbbero i marinai) uno spettacolo degno di attenzione.
Scende dalla barca, si avvicina al nostromo e gli chiede: Ti dispiacerebbe darmi una mano? Dé, ti ci posso salì io ma datti ‘na mano umme lo poi chiedé, se t’ingrugni ‘n terra doventa corpa mia e unn’ho proprio voglia di portatti all’ospedale.
Il fiorentino si mette da parte e accetta l’offerta.
Il nostromo comincia a prepararsi a salire e fa al fiorentino: Sono cento euro, ‘Un tu vorrai mica che m’arrapini gratisse amore dei?
Il fiorentino risponde che cento euro sono troppi, che lui ci mette un giorno intero a guadagnalli, che ha un amico che fa il  pompiere e lo chiamano gatto per quanto è svelto.
Il nostromo scende dalla barca, con calma.
E la scena finisce qui.
Il finesettimana successivo arriva gatto.
Una febbre invade il porto: C’è gatto che sale in testa d’albero dal fiorentino, venite a vedere.
Gatto è un giovinastro atletico.
Biondiccio.
Si spoglia a mostrare i bicipiti ed i pettorali: Dé, fava, lasciati la maglietta che ti graffi tutto.
Comincia a salire: Dé briahi, l’avete assicurato con la drizza di rispetto che se Gatto vola in giù, batte ‘na bella romba.
E Gatto ritorna sulla coperta per assicurarsi meglio.
Finalmente comincia a salire.
Una bracciata dietro l’altra, non lo chiamano Gatto mica per ridere.
Rallenta.
Dapprima impercettibilmente, poi arranca in maniera sempre più evidente.
La folla: Dé Gatto ‘un ti sentirai miha male?
Gatto impallidisce. Ma si sforza di sorridere.
Arriva un’onda, un’altra onda e la barca beccheggia.
Gatto si abbraccia all’albero, bianco come un lenzuolo: Dé ci more_No ‘un pòle morì_E’ un gatto.
Gatto si abbraccia sempre più forte, guarda verso il basso e giù un ombrellata di vomito che sembra un diluvio.
Il fiorentino se la vede arrivare in pieno viso, cerca di ripararsi come meglio può, molla la drizza e Gatto vola di sotto, spezzandosi malamente una gamba e devastando il tambuccio.
La folla si allontana sghignazzando: Po’ero Gatto, ‘un li doveva bé tutti que’ ponci.

Lo scacciapiccioni

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
13/11/2007

Uno dei mestieri più antichi di Firenze è il trippaio.
Il trippaio è un banchino appoggiato ai margini di una strada nel quale bolle in continuazione una pentola che cuoce la trippa ed una pentola che cuoce il lampredotto.
Sono quasi tutti Apini appositamente attrezzati.
Le domande sono:
condito?
La risposta è sale, dimolto (tuttaunaparola) pepe, salsa verde. Gli eretici aggiungono il piccante.
bagnato?
La risposta dipende dal vestito. Il panino è sicuramente più buono bagnato, ma altrettanto sicuramente costringe alla tipica posizione del mangiatore stradale di lampredotto: gambe larghe, piegato in avanti, braccia ben lontane dal corpo.
Mi piacciono i panini col lampredotto.
Il loro tono da Alvaro il laido.
Di solito, però, il piacere del lampredotto è turbato dai piccioni che ti beccano fra le gambe gli avanzi del precedente avventore.
Oggi ho scoperto un nuovo mestiere.
Lo scacciapiccioni.
Un rumeno armato di scopa che scaccia i piccioni mentre mangi il panino.
Fantastico.
Speriamo non faccia la fine dei lavavetri.

Una topa a biliardino (absit injuria verbis)

7 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
31/10/2007

Esiste nella pretura di Firenze un aula di udienza piuttosto piccola.
E’ composta di poche sedie, una pedana ed una scrivania per il giudice.
eden-autoreggenteLa scrivania è molto alta rispetto al piano di calpestio ed è completamente aperta sul davanti.
Esiste anche un magistrato sui quaranta anni che è solita indossare minigonne piuttosto vertiginose e delle calze autoreggenti. Non bella, ma conturbante.
Si siede a questa scrivania ed inizia ad agitare le gambe. Le accavalla, le scavalla, si dimena sulla sedia.
Imperturbabile.
In questi momenti, il pubblico degli astanti – avvocati tristi, bagnati in questi giorni di pioggia, la polvere dei fascicoli che è diventata epidermide – la segue ondeggiando, come giocatori infilati in un’asta da calcio balilla giocata nevroticamente.
Una massa che si chiede se il bianco appena intravisto sia un perizoma o un tanga (non ho mai capito la differenza).
Una massa che stupra con gli occhi l’apparentemente ingenua esibizione.
E la giudice si diverte, chiama le cause ad una ad una, lentamente, fa domande complesse, interroga, coglie il disgraziato distratto e lo devasta a raffiche di codici sul capo.
Mi diverto a sedere in un angolo e guardare, un pò la folla, un pò il mistero ostentato.

Chi li ha sciolti? (Toto)

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
25/10/2007

Toto Cotugno non è solo il cantante anni ottanta che si sta rifacendo una verginità nei paesi dell’est.
E’ anche il giovane di bottega di un barbiere di lusso del centro storico di Firenze.
Un giovane barese di cinquantacinque anni.
Assolutamente convinto di essere identico a Toto Cotugno.
Anzi di essere il vero Toto Cotugno.
Peccato si chiami in un altro modo.
In ogni caso, porta un parrucchino con appiccicata la chioma del suo idolo.TotoCotugno
Indossa improbabili camicie a righe, di una stoffa modellata sulla tappezzeria di una professoressa di inglese arrivata zitella alla soglia dei novanta anni.
Aperte su un petto, dove, fra i peli, si affaccia un crocefisso a forma di ancora con catenaria da petroliera.
Le gambette affustate dentro a dei pantaloni di pelle, anche d’agosto, incredibilmente rigonfi laddove è opportuno.
Alla sera frequenta un night, sulle colline, dove verso la chiusura gli permettono di cantare e lui dice di accettare per filantropia, ma gli avventori non sono d’accordo.
D’estate, c’è sempre qualche festa dell’unità, del volontariato o di rifondazione che lo ospita, sgangherato, e,  in questo caso, gli avventori criticano la sua arte in maniera molto più palese.
Al mattino, lo si vede davanti al Chiosco degli Sportivi che guarda il cartellone con le corse dei cavalli, di cui è un notevole esperto, discetta di handicap e stacco, trotto e galoppo, segna numeri e numeri su un taccuino che porta sempre con sé, in una calligrafia infantile ed incerta, finché non si gioca l’intero stipendio.
Ecco, uno così è contento.
Sorride sempre.
Anche se ha tre figli di cui non sa nulla da più di venti anni.
Anche se si accompagna ad una donna che non disdegna di proclamare – pubblicamente ed a voce alta – la sua inutilità, quando alla sera lo recupera dalla sala corse e se lo riporta a casa in un tornado di improperi e pedate che non gli lasciano nemmeno toccare terra.

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