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Tag Archive for: poesia

Un cucciolo

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
20/11/2007

E’ appena nato.
Ancora non sa sorridere.
Forse non saprà mai sorridere.
Non ci vede nemmeno.
Solo un fagotto che trema nella polvere della strada.
Chiuso con altri cuccioli dentro ad un sacco a pelo.
Circondato – foto su foto, carezza su carezza – dal falso affetto dei passanti.

De André per la mia generazione

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
14/11/2007

La mia generazione non ha fatto il sessantotto.
Non è nemmeno stata in piazza durante il settantasette.
La mia generazione è stata giovane negli anni della pantera, che a Firenze è un modo di dire non troppo elegante e si usa per alludere che è bionda ma ce l’ha nera.
Però abbiamo avuto De Andrè.
E ci ha portato in tutti i luoghi che non abbiamo vissuto.

Stefano, i suoi pensieri (la vita è un globale bisogno di affetto)

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
14/11/2007

Dobbiamo difendere la nostra identità. E’ facile distruggere l’identità di un popolo e di una civiltà con il turpiloquio cattolico delle illusioni, della demagogia, sintesi retorica per negare i fatti della storia, demagogia è guerra, strage, questo è il problema fondamentale dell’anima umana.  Infatti l’identità, i processi affermativi dell’infanzia e degli emarginati, risulta essere la crisi più terribile di un popolo nelle affermazioni di se stesso. La vita negata sul muro del pianto, è poi una vita che nega e distrugge se stessa. E’ la guerra bisogna cercare di difendere l’identità culturale e storia dei fatti al di là del bene e del male… rimanere nei fatti per non morire. E’ lupanara più terribile e diabolica che ci sia la realtà proibita per secoli e secoli e tutt’oggi dall’inquisizione. Il processo affermativo dei processi reali è diabolico e il più difficile che ci possa essere: tutti negano. Nessuno sa nulla. Non si puòò negare la storia. E’  la mancanza di affetto come devastante ignoranza dei principi reali se si pensa che la vita è un globale bisogno di affetto. In fondo volersi bene è la cosa più diabolica che ci sia.

Stefano, i suoi pensieri

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/11/2007

La cosa più importante per nostra civilità è che noi troviamo i nostri principi affermativi dell’anima e su questa vetta del mondo, bambini al potere, possiamo distruggere le illusioni di una vita negata, e questo sole immenso interiore di fortissimo significato vitale nel volersi bene, nel rispetto sempre maggiore di noi stessi possiamo finalmente godere all’infinito sempre più il piacere. E’ anche facile. La felicità deve stare al posto giusto. Non è un matrimonio. E’ una coscienza di sé. Le grandi potenze concettuali del grande godimento sono piccole cose. L’amore è la certezza che hai di te stesso. Imbroglio significa schiavitù. I cattolici falsi ma etruschi tentano di rubare l’identità della storia del popolo. Noi stiamo convivendo con la nostra preistoria stalinista.

I pensieri di Stefano

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/11/2007

La chiusura dei manicomi ha invaso la nostra quotidianità di pensieri diversi.
Si accumulano nella loro dolcezza in strani percorsi.
Il manicomio di Firenze si chiama San Salvi.
E’ un luogo splendido e terribile.
Un enorme giardino completamente recintato.
Uno spazio concluso, ma infinitamente dilatato.
Amo quel luogo ed amo i pazzi che continuano a percorrerlo.
Lo frequento ed alcuni di loro sono diventati amici, se così posso scrivere.
Soprattutto Stefano.
Stefano scrive libri continuamente.
Li scrive e me li dà, me li porta a casa, in cambio di una cena e di un intercalare di famiglia nella sua vita di vagabondo.
E’ terribilmente lombrosiano: enorme la testa, il viso butterato, lo stomaco prominente dell’alcolizzato cronico, gli odori della strada appiccicati addosso.
Fuma come un dannato.
Ma non beve mai con me.
Non beve a casa mia.
Solo acqua naturale.
Le bambine si sono abituate alla sua presenza ingombrante.
Arriva ad ore improbabili.
Spesso con un quadro sotto il braccio.
Il martello che esce dalla tasca interna della giacca, i chiodi in bocca e dice – sono le sei del mattino – Stanotte, ho dipinto per la camera delle bimbe, posso attaccare il mio quadro?
E diventa un natale sgangherato, anche se è novembre e piove forte, dolcemente.
Altre volte, porta i suoi libri ed inizia a leggere.
Legge, a voce alta, con un bellissimo tono baritonale, parole in libertà collegate da pensieri fissi (gli etruschi, la chiesa, le donne, la fica).
Alla fine, mi chiede sempre: quando mi porti all’università? Voglio leggere i miei libri, insegnare la mia dottrina…

Primo

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
15/06/2007

Era iniziato un altro giorno mescolato ai soliti riflessi d’ombra.
Della solita fatica di alzarsi, di guardare l’inizio dei significati nascosto nella luce del crepuscolo inverso che qualcuno chiama alba e di fingere di avere cominciato a comprenderli
Il mattino inizia lentamente, con una luce di inizio estate, una luce afosa, che invita la solitudine a chiudersi dentro l’aria condizionata.
Comincia osservando il sonno delle bambine, quel loro lento modo di accucciarsi dentro le coperte, senza chiedere nulla, ma sicure di tutto.
Continua nel chiasso, come d’un pollaio che si apre su un cartone animato, del primo treno che lo porta verso le sue lezioni.
È un accademico, se così può dire di sé.
Un accademico convinto di avere sbagliato mestiere, o di avere sbagliato il tempo del mestiere, che poi è la stessa cosa.
Sul treno, scava i lavori della assemblea costituente, con la precisione di un sarto da signori cerca le parole giuste per rammentarli ai suoi studenti.
Si accorge di avere parlato una sola volta sul treno con una persona che non conosceva in tutto il semestre. Una francese che aveva deciso di leggere il suo fumetto. Divertente. Era seduto, al solito posto: primo vagone, primo scompartimento dietro la motrice (così, dura meno, si diceva, pensando ad un incidente), il pacco dei giornali sul sedile di fronte, il computer sulle ginocchia. In cima al pacco dei giornali un fumetto di fantascienza (non riusciva a smettere di leggere fumetti. Più tempo passava dalla sua adolescenza, più si sentiva legato ai riti di quando s’era ragazzi). La sua testa era chiusa dentro al computer. La ragazza francese aveva chiesto se poteva sedersi accanto a lui. Le aveva acconsentito con il massimo grado di fredda cortesia di cui era capace. E la ragazza gli aveva chiesto se poteva prendere il suo fumetto, per poi concludere che preferiva le leggesse il giornale. Le aveva letto il giornale, un giornale attento al duello Sarkozy – Bairou, che aveva acquistato per capire qualcosa delle dimissioni di Romano Vaccarella da giudice della Corte costituzionale. La ragazza – né le aveva chiesto il nome, né si era presentato – parlava di ecologia, come di una scelta fondamentale per il futuro. Parlava della sua scelta di vivere in Toscana. Del progressivo sgretolarsi della sicurezza sociale. Del suo modo di programmare la lavatrice e delle sue scelte in materia di lampadine elettriche. Ascoltava con quella cortesia che aveva appreso da piccolo, fissando i suoi occhi, uno sguardo che avrebbe potuto essere interessante se non avesse sovrastato una dentatura straordinariamente equina, con un bisogno di dentista così triste che avrebbe potuto essere cantato da Brel. Eppure non parlava, anche se la ragazza era davvero molto gentile, non riusciva a parlarle. Sentiva che le parole erano morte dentro di lui. Continuavano ad esprimersi, naturalmente: avevano il loro suono ed a quel suono corrispondeva il loro solito significato che gli altri intendevano. Ma era dentro al suo cervello che le parole erano collassate, i lemmi del suo linguaggio avevano perso, stavano perdendo, il sentiero che li collegava alle radici materiali del pensiero, a quel cuore di immagini pulsanti di tenebra che impasta i significanti. Non sapeva dire se dipendesse dalla ragazza, da quel suo vuoto chiacchierare di cose anche importanti per passare il tempo senza leggere un giornale incomprensibile, o se fosse un cammino iniziato da tempo. Sconfisse questo timore: la sua vita era stata massicciamente impiegata nella ricerca del colore delle parole e le parole non potevano morire così all’improvviso. Fu in quel momento che si rese conto di avere incontrato la ragazza che uccideva le parole.
Niente di diverso da una persona che cammina, pensa, continua a camminare.
Incontra altre persone, le guarda, come se le fotografasse, pensa a come potrebbe raccontarle e talvolta cerca di narrare le storie che le loro andature suggeriscono.
Questa abitudine gli ricorda le parole del suo maestro, che sosteneva di sapere individuare il mestiere degli uomini osservando il loro modo di camminare.

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