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Much ado about nothing (A proposito di una promulgazione negata)

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
01/04/2010

molto-rumore-per-nulla
Il Capo dello Stato ha esercitato la propria prerogativa di rinvio alle Camere – art. 74, primo comma, Cost.- con riferimento al Ddl 1167 – B, definitivamente approvato dal Senato della Repubblica il 3 marzo 2010 ed intestato Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro.
Il testo del comunicato è assai scarno: "Il Capo dello Stato è stato indotto a tale decisione dalla estrema eterogeneità della legge e in particolare dalla complessità e problematicità di alcune disposizioni – con specifico riguardo agli articoli 31 e 20 – che disciplinano temi, attinenti alla tutela del lavoro, di indubbia delicatezza sul piano sociale."
L'eterogeneità della legge è tema complesso: il Presidente della Repubblica correttamente richiama il legislatore ad una produzione normativa omogenea perché racchiudere in uno stesso testo disposizioni che esprimono un contenuto normativo unitario significa consentire la conoscenza della legge e costituisce un elemento di democraticità del sistema.
L'art. 20 è una norma di interpretazione autentica in materia di lavoro marittimo di difficile comprensibilità.
L'art. 31, invece, è la disposizione che introduceva l'arbitrato in materia di lavoro dipendente e che ha suscitato molte polemiche.
Forse possono essere considerate polemiche inutili e fuori luogo.
Il ricorso all'arbitrato è condizionato a due presupposti: uno di carattere oggettivo, l'arbitrato deve essere ammesso in sede di contrattazione collettiva e l'altro di carattere soggettivo, entrambe le Parti devono aderire spontaneamente alla convenzione arbitrale.
In questi casi, è possibile rinunciare alla tutela giurisdizionale dei diritti e ottenere una tutela convenzionale.
Con un vantaggio significativo che riguarda il tempo della decisione: non più i tre anni mediamente necessari per la soluzione di una lite in materia di lavoro ma massimi novanta giorni.
Ci si deve chiedere se davvero la possibilità di rinunciare alla tutela giurisdizionale per ottenere una tutela arbitrale non possa essere considerata coperta dalla garanzia costituzionale dell'art. 24, Cost.
In realtà, l'art. 24, Cost. se esprime una norma che sicuramente non consente l'introduzione di arbitrati obbligatori, probabilmente esprime anche una norma che non consente – ove si tratti di diritti disponibili – il monopolio del potere giurisdizionale per la soluzione delle controversie.
I cittadini come possono rinunciare alla tutela di un proprio diritto, così possono scegliere forme di tutela diverse dal processo contenzioso regolato dal codice di rito civile ed affidato all'ordinamento giudiziario.
In altre parole, la posizione del Capo dello Stato non sembra potersi fondare su ragioni di carattere costituzionale ma piuttosto su motivi di opportunità politica.
Una opportunità politica che induce il Presidente della Repubblica ad incontrare il Presidente della Corte costituzionale prima di rinviare la deliberazione legislativa alle Camere ed a fissare un incontro con il Presidente del Consiglio dei Ministri per il giorno successivo.
Una intelligenza politica che sembra avere come senso quello di far presente al Governo l'unità dei custodi della Costituzione (Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale) e la loro forza interdittiva nei confronti di azioni normative che si svolgano al di fuori di una opportuna concertazione.
Tuttavia in assenza di un parametro costituzionale certo, come sarebbe stato nel caso del decreto salva liste, questa intelligenza politica può derapare in un conflitto fra poteri composto di reciproche arroganze e un tanto ha ben compreso l'eufemico Di Pietro con il suo immediato vociare in favore del Papà Capo dello Stato, come ha il coraggio di chiamare Napolitano, senza pensare alle virtù della propria genitrice.

Libertà nella rete (A proposito del Popolo delle Libertà e dei suoi indirizzi sull’internet)

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
22/12/2009

giornali_strilloneIl senatore Raffaele Lauro ha presentato – alla stampa, ma non al Senato – un disegno di legge con cui proporrebbe di punire con una aggravante i reati di apologia ed istigazione commessi per il tramite della rete.
I reati di apologia e di istigazioni rappresentano un terreno costituzionalmente molto delicato: il confine della libertà di manifestazione del pensiero "lecita" e necessaria per l’affermazione dei valori costituzionali con quel pensiero che è talmente vicino all’azione da confondersi con essa.
E’ un tema vecchio: in realtà, probabilmente, dal punto di vista logico distinguere fra diverse categorie di pensiero sulla base della loro contiguità all’azione è un esercizio impossibile.
Una democrazia esige che la libertà di manifestazione del pensiero possa avere anche contenuto eversivo dell’ordine costituzionale: un partito politico può essere antisistema. Tuttavia il confine fra la normale attività di propaganda di un partito politico antisistema e l’apologia del reato di insurrezione armata ovvero l’istigazione all’attentato contro la Costituzione può essere molto labile.
Più interessante la questione del mezzo utilizzato: la rete diventa una aggravante.
Perché?
Perché usare la rete per diffondere le proprie opinioni politiche è più pericoloso di qualsiasi altro media?
La vera differenza fra la rete e gli altri mezzi di comunicazione è l’accessibilità e la costruzione di un modello democratico in cui è possibile la libera associazione fra quanti hanno idee e sentimenti simili fra di loro, senza alcuna barriera sociale o economica.
Il sottoscritto accede molto facilmente al suo blog per postare le sue idee, ha molte più difficoltà a scrivere per il Corsera o ad essere invitato da Vespa nel suo salotto pomeridianamente differito.
Questo rischia di dare molto fastidio e genera disegni di legge come quello annunciato, ma non presentato, più un cadeaux che un progetto di legge, dal senatore Lauro.
Ma non è Lauro che preoccupa di più in questo periodo.
Preoccupa il processo Vivi Down.
In questo processo, che sta arrivando a sentenza, quattro top manager di Google sono accusati di non avere impedito la trasmissione tramite You Tube di un video in cui un ragazzo affetto dalla sindrome di Down veniva vessato.
Un terribilmente banale episodio di cyberbullismo.
Per la pubblica accusa, Google, in persona dei suoi top manager, avrebbe dovuto impedire la diffusione di questo video.
L’accusa è eversiva di una serie di norme giurisprudenziali e di legge: il "service provider" che si limiti a concedere l’accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d’autore eventualmente compiuta da quest’ultimo (in questi termini, già: Tribunale  Cuneo, 23 giugno 1997, in Giur. piemontese 1997, 493).
Questo indirizzo giurisprudenziale si è consolidato nell’art. 16, primo comma, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, per il quale:
Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: (a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; (b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
E’ una norma che, per la libertà di manifestazione del pensiero, ha un valore materialmente costituzionale, perché consente a qualunque persona di accedere alla rete e rendere accessibili le proprie idee senza subire il controllo preventivo di nessuno.
La sottile censura del processo Vivi Down, dal nome della associazione che lo promuove come parte civile, è pericolosa perché introduce nella rete una nuova tensione: le policies dei Service Provider in materia di privacy, per citare Facebook, ovvero di diritto di autore, per ricordare The Pirate Bay, possono decidere che cosa pensano le persone.
La tenaglia dei due movimenti, la giurisprudenza milanese del caso Vivi Down e l’aggravante Lauro, può rendere molto difficile manifestare il proprio pensiero ed è pericolosamente vicina ad un sentimento autoritario della rete che fa rabbrividire.

Ci può essere giustizia senza condanna?

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
12/12/2009

300px-Milano_-_Piazza_Fontana_-_Lapide_VittimePiazza Fontana pone molte domande.
Le continua a porre malgrado gli anni trascorsi.
Domande inutili, secondo il J’Accuse di Pasolini sul Corsera del 14 novembre 1974.
Che, però, riguardano la stessa costruzione retorica della democrazia in Italia.
La più classica di queste è se possa esistere una giustizia senza la condanna dei colpevoli.
Si aggancia ad una domanda più radicale: può esistere una democrazia senza giustizia?
La giustizia non è la condanna del colpevole.
E’ la seriamente pervicace ricerca del colpevole attraverso un processo giusto e fondato sulla presunzione di innocenza.
La giustizia può esistere senza condanne.
Non può esistere senza un giusto processo.
La democrazia ha bisogno della ricerca della verità, ma non della verità.
Piazza Fontana, secondo questo J’accuse, può entrare nel dibattito sul processo breve.
Il processo breve impone una selezione dei processi: non tutti i fatti che chiedono un processo possono essere oggetto di un processo se il processo deve essere breve.
La giustizia assume un tono aziendale.
Deve selezionare i casi che può affrontare con le proprie forze e accettare che per tutti gli altri casi il perdono della prescrizione cada sul bisogno di giustizia delle vittime.
Il punto del processo breve è questo: Chi decide chi deve avere giustizia?
E’ una decisione politica, perché la giustizia diventa un bene scarso e si deve scegliere chi la può ricevere.
Significa scegliere un nome su una lapide e scartare gli altri.
In questo schema, forse, il processo per Piazza Fontana non sarebbe più possibile perché toglierebbe troppi spazi ad altri processi.
In questo schema, la democrazia sceglie le verità che le interessa ricercare e, forse, smette di essere una democrazia.

Vota il malanno (Breve post di pessimo gusto)

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
03/12/2009

Lonardo_lawson
Sandra Lonardo e’ malata.
Gravemente.
Il commento più banale e’ Finche’ rubano stanno sempre bene.
Senz’altro ingiusto.
La signora Lonardo, gia’ presidente del consiglio regionale campano, moglie di Mastella e first lady di Ceppaloni, aspetta ancora un processo.
Possibilmente breve.
Nulla pero’ impedisce di immaginare la malattia: mal di denti da torrone o emorroidi da procura?

68, 90 e 96 sulla ruota di Roma (Parametri a caso in una difesa parlamentare)

7 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
29/10/2009

lottoC’è un ministro del Parlamento che si chiama Altero Matteoli.
Il nome sa di risorgimento.
Lo scandalo in cui è coinvolto meno.
Questo ministro viene a sapere che un prefetto è sottoposto ad una indagine penale e che le comunicazioni del funzionario sono intercettate dalla Procura.
Avverte il funzionario di entrambe le cose.
Di conseguenza, viene intrapreso un procedimento a suo carico in cui si deve accertare se ha violato il segreto di ufficio o se ha illecitamente favorito il prefetto.
Questo ministro ha un avvocato che si chiama Consolo e che è parlamentare.
La tesi del legale del ministro è che il ministro abbia commesso un reato ministeriale e che: (i) debba essere giudicato dal Tribunale dei Ministri; (ii) la Camera dei Deputati debba pronunciarsi sulla autorizzazione a procedere nei confronti del ministro.
Il punto, che può sfuggire, è che i ministri godono di un regime penale singolare, che subordina l’esercizio della azione penale nei loro confronti alla autorizzazione di una Camera, solo per i reati ministeriali, ovvero per le fattispecie criminose che siano collegate all’esercizio delle loro funzioni di governo.
L’idea è che il ministro, in quanto vertice dell’esecutivo, possa andare oltre alla lettera della legge e commettere anche dei reati, che possono trovare una giustificazione politica e che in questi casi la giustificazione politica possa consentire l’assoluzione del ministro.
Questo accade nei casi in cui la Camera – a maggioranza assoluta dei propri membri – giudichi che il ministro ha agito per la tutela di un interesse costituzionalmente rilevante ovvero per il conseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo (art. 9, terzo comma, legge cost. 1/1989).
Questa valutazione è una valutazione politica e come tale insindacabile.
Di conseguenza, la Camera di appartenenza del ministro può, con un voto a maggioranza assoluta, assolverlo.
La maggioranza del voto è la motivazione dei presupposti di cui all’art. 9, terzo comma, legge cost. 1/1989.
Che perciò potrebbero anche non sussistere, ma essere egualmente dichiarati, con l’unica sanzione della responsabilità politica del voto parlamentare.
In altre parole, una maggioranza forte è arbitra dell’esercizio dell’azione penale nei confronti dei membri del governo purché l’azione penale riguardi dei reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali.
Di conseguenza, il nodo è di carattere procedurale e riguarda il soggetto che è chiamato a definire un determinato fatto come commesso nell’esercizio delle funzioni di governo.
Ad oggi, una piana lettura dell’art. 2, legge 219 del 1989, in combinato disposto con gli artt. 6 e 7, legge cost. 1/1989, riserva questa attribuzione al Procuratore della Repubblica del tribunale nella cui circoscrizione si è commesso il fatto, che deve trasmettere le denunzie al Collegio previsto dall’art. 7, legge cost. 1/1989 ed al Collegio inquirente che deve compiere tutte le indagini del caso restituendo gli atti al Procuratore della Repubblica che procede a richiedere l’autorizzazione a procedere nel caso in cui ritenga ragionevolmente fondate le accuse ovvero procede alla archiviazione.
In questa attribuzione, non vi è alcuno spazio per gli organismi parlamentari: è la magistratura che decide se quel determinato fatto ipotizzato a carico di un ministro è un reato ministeriale e quindi sottoposto ad un filtro di carattere politico oppure un reato comune per il quale il ministro è responsabile esattamente come ogni altro cittadino.
Il Parlamento, ieri, con una larga maggioranza, ha invertito questa posizione deliberando che spetta alla Camera decidere sulla natura politica o meno del reato ministeriale.
E’ una decisione che si presta a molte critiche.
La prima è di carattere logico: la legge cost. 1/1989 ha introdotto una condizione di procedibilità per l’esercizio della azione penale nei confronti dei reati ministeriali. Il giudice naturale delle condizioni di procedibilità è il giudice penale che come giudica dell’azione penale giudica anche delle condizioni di procedibilità della stessa. Questa osservazione è stressata, nel senso di sottolineata con forza, dal disegno di legge 891 del 2008, a firma Consolo, dove la pregiudizialità della valutazione parlamentare è imposta con una modifica espressa dell’art. 2, legge 219 del 1989 e sul piano intellettuale presentare un disegno di legge che prevede l’esercizio di una attribuzione significa confessare che sino a quel momento quella attribuzione non è riconosciuta a favore del soggetto cui si intende attribuirla.
La seconda è di carattere costituzionale: il dibattito parlamentare ha fatto tesoro della giurisprudenza costituzionale sviluppata sull’art. 68, Cost, che garantisce l’irresponsabilità dei parlamentari per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Secondo questa giurisprudenza spetta alle Camere stabilire se una opinione o un voto sono inerenti all’esercizio delle funzioni parlamentari, perché la prerogativa della insindacabilità si salda alla autonomia del Parlamento. Ma l’art. 96, Cost. non riguarda l’autonomia del Governo, nevvero che il voto sulla autorizzazione a procedere è affidato al Parlamento, che in questo modo esercita la propria funzione di controllo politico sull’operato ministeriale.
La terza è sempre di carattere costituzione e riguarda l’art. 90, Cost, non evocato nel dibattito parlamentare. Il giudizio penale sulla responsabilità del Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla Costituzione è affidato alla Corte costituzionale, sulla base delle indagini svolte dal comitato di cui all’art. 12, legge cost. 1/1953. Questo comitato viene equiparato dall’art. 5, legge 219 del 1989 al collegio di cui all’art. 7, legge cost. 1/1989 ed ha il compito, così l’art. 8, secondo comma, legge 219 del 1989, di stabilire se i fatti per i quali si sta esercitando l’azione penale cadono o meno nell’ambito di applicazione dell’art. 90, Cost. Se è così, per logica sistematica, il collegio di cui all’art. 7, legge 219 del 1989 ha il compito di effettuare la stessa valutazione con riferimento all’art. 96, Cost.
La decisione della Camera dei Deputati, però, pone una questione molto più grave: se una camera può decidere a maggioranza assoluta di considerare come reato ministeriale qualsiasi fatto per il quale siano in corso delle indagini nei confronti di un membro del governo, la definizione di reato ministeriale diventa politica e questo è possibile solo nel caso di cui all’art. 90, Cost, per la particolare posizione del Capo dello Stato nella forma di governo ed il peculiare disegno della responsabilità penale "aperta" disegnata dalla Costituzione nei suoi riguardi come una sorta di spada di Damocle.
Significa affidare il compito, l’attribuzione costituzionale, di decidere se un ministro può essere sottoposto a processo ad una maggioranza politica, con una torsione non indifferente dei principi dello Stato di diritto.
Di Pietro, ieri, è stato molto efficace sul punto: Che ci azzecca un ministro che dice ad un prefetto che è indagato e che deve stare attento quando parla al telefono con il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico connesso all’esercizio delle funzioni di governo?
C’entra 375 "si" contro 199 "no".
Solo questo e non altro.

Il segreto della camera di consiglio (Un galantuomo)

10 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
08/10/2009

9788815124234Chi scrive è diventato professore universitario dopo avere conosciuto Paolo Grossi.
Sono state le lezioni di Paolo Grossi, la sua attenta lucidità, che lo hanno convinto.
Sono le lezioni di Paolo Grossi che cerca di rincorrere per i suoi studenti.
Paolo Grossi può avere molti difetti.
Ma è sicuramente un galantuomo.
Un uomo d’altri tempi.
Un uomo che sa coltivare il diritto con quella passione che faceva disegnare le colline ai monaci medioevali, sui cui usi giuridici ha molto studiato e attentamente scritto.
L’intelligenza di Paolo Grossi è nella sua scuola, che, molto laicamente, ha impegnato nello studio delle dottrine giuspubbliciste, piuttosto che appiattirla sui suoi interessi primariamente orientati al diritto privato e alle teorie della proprietà.
E’ lui il giudice costituzionale di cui si parla nelle cronache di oggi.
Il giudice che avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia per la incostituzionalità del Lodo Alfano.
E’ lui che Berlusconi citava quando indicava con sapida ignoranza 11 giudici di nomina presidenziale (anziché 5), e quindi comunisti.
Grossi può essere molte cose, ma immaginarlo comunista è davvero impossibile.
Il problema, però, è un altro.
La notizia che Grossi era indeciso è una notizia che appartiene al segreto della camera di consiglio della Corte costituzionale.
Il segreto della camera di consiglio fa sì che le sentenze della Corte costituzionale escano da un Collegio e siano l’immagine della Costituzione: la Costituzione non può tollerare voci discordanti e le sentenze integrano il testo costituzionale perché gli danno voce e forza normativa.
Far emergere i rumors della Corte significa indebolirla spaventosamente.
Questo è intollerabile.
Come è intollerabile immaginare una Corte di destra o di sinistra o citare, così Feltri, la provenienza dei giudici come sintomo della loro coloritura politica: i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti sono nominati a vita proprio per sganciarli da qualsiasi mandato di carattere politico.
La stessa cosa è per i nostri giudici costituzionali, che durano in carica nove anni, ovvero più di una magistratura, ma anche di un mandato presidenziale, e non sono rieleggibili.
E’ un contesto che non accetta, che non dovrebbe accettare, pettegolezzi da camera di consiglio.
L’unica cosa che importa è che cosa la Corte ha deciso e se la sua motivazione può reggere il confronto con l’opinione pubblica da cui deriva la legittimazione delle sentenze.
Il resto sono chiacchiere.
Di pessimo gusto.
Perchè trasformano la Consulta in una salone di bellezza di periferia.

Torero o torello?

8 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/09/2009

Pfizer-ViagraIl Corsera pubblica i verbali degli interrogatori di Tarantini.
Ha rifornito il Presidente del Consiglio di numero trenta signorine per diciotto serate.
Ha fatto sì che il Vice presidente della regione Puglia godesse dei favori di altre signorine.
Ha organizzato una cena elettorale per il comunista a vela.
Tutto questo si sapeva.
Non si conosceva la chiosa dell’indagato alle proprie dichiarazioni.
Tarantini ha voluto precisare che la sua volontà, il suo disegno strategico era di organizzare, attraverso le donne e la cocaina, una rete di amicizie influenti.
In questo modo, ha svelato la sua linea di difesa: Io non ho corrotto nessuno, perché non ho chiesto particolari favori, ho chiesto solo amicizia.
Come Don Corleone e gli amici di Don Corleone avevano l’obbligo di dimostrare la loro amicizia quando il Padrino lo chiedeva.
Può essere una linea defensionale per Tarantini.
Sicuramente non lo è per il Presidente Torello.

In un paese normale

14 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
20/05/2009

MillsIl signor Mills è stato condannato a 4 anni e sei mesi.
Da tempo, ma solo ieri sono state depositate le 400 pagine di motivazione.
Avrebbe ricevuto del denaro per testimoniare il falso in un processo.
Cose che capitano.
E nemmeno di rado.
La stampa tuona.
Il ritornello è In un paese normale…
In un paese normale, il Presidente del Consiglio accusato di subornazione si dimetterebbe.
In paese normale, il primo ministro non potrebbe essere sottratto alla giustizia penale.
Di Pietro potrebbe superare se stesso solo chiedendo a Berlusconi di fare seppuku con l’aiuto di Bondi.
Onestamente in questa vicenda ci sono anche delle cose che non tornano.
Mills sarebbe un brillante avvocato di affari che avrebbe messo in piedi una catena di società off shore ricollegabili a Berlusconi.
Attraverso queste società, Berlusconi avrebbe acquistato i diritti televisivi dei film stranieri trasmessi da Mediaset e ceduto gli stessi a Mediaset.
In questo modo, Berlusconi avrebbe fatto dei guadagni molto ingenti, sia dal punto di vista fiscale, che in danno degli altri azionisti di Mediaset.
In pratica, MIlls sarebbe un brillante truffatore.
Tuttavia, questo malandrino di talento quando preparava la dichiarazione dei redditi nel 1996 si sarebbe trovato in imbarazzo per giustificare una somma.
Avrebbe fatto quello che fa qualsiasi avvocato privo di scrupoli: scritto (come se un avvocato scrivesse a cuor leggero) al suo commercialista per chiedere consiglio, in modo che questo non potesse che denunciarlo al fisco inglese.
Un tipo dell’intelligenza di Mills e della sua preparazione professionale non sapeva che nel Regno Unito vigono (e sono rispettate) delle norme sul genere della nostra disciplina antiriciclaggio che impongono a qualsiasi professionista che sia a conoscenza della provenienza illecita di una somma di denaro di comunicare questa circostanza al Fisco?
In un paese normale, questo non succede.
In un paese normale, un avvocato del genere di Mills sa organizzare delle truffe pulite e sa come farsi corrispondere quanto dovuto in maniera trasparente.
Di sicuro, non è così idiota da scrivere al suo commercialista di essere in difficoltà con un pagamento illecito.
Le due cose stanno davvero male assieme.
La conclusione è che è davvero molto difficile credere che Mills sia colpevole.
Oppure che Mills è consapevolmente colpevole all’interno di un complotto pluto-giudaico-massonico.

Oggi, esce

10 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
23/04/2009

ChiesaOggi, esce.
Dopo otto anni di galera.
Della galera di un pedofilo che ha confessato.
Di un prete che si è approfittato dei bambini che giocavano nel suo oratorio.
Esce.
Sa esattamente quello che troverà.
Un ricovero per preti anziani.
Odori di minestra e suore del terzo mondo.
Passeggiate.
Breviario.
Ostili compassioni da confessionale.
La vecchia professoressa di italiano che passerà ogni tanto a trovarlo.
Nonostante tutto, fa compassione ricordare la gioventù dei suoi sogni.
Ricordare che un tempo sapeva parlare di Dio semplicemente lasciando brillare gli occhi.

Piange

8 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
23/02/2009

PiangeAula di tribunale.
Fredda di crocefissi.
Avvocati che scivolano agguantati alla sicurezza delle loro cravatte di falsa seta.
Seduto come in ginocchio l’imputato.
I secondini lo stringono in un muro di silenzio: Voi che capite, mi spiegate cosa succede?
Un giudice legge muti articoli di legge: Voi che capite?
La donna vuota nel vuoto della porta.
Avvinghiata all’usciere: Lei che capisce?
Piange.
Piange senza trattenersi.
Piange inciampando nei singhiozzi: Pago io le spese di custodia cautelare … Fruga in un portafoglio di povertà e miseria, di spiccioli e pane, per far vedere che può farlo.
La messa finisce, come un rosario alle sei del mattino.
Le cravatte si fermano, senza smettere i sorrisi di falsa seta.
Un giudice legge la muta condanna: Voi che capite? Lei che capisce?
In piedi come in ginocchio, lui viene portato via.
Nei singhiozzi di lei.
Nella danza delle toghe che si scambiano di posto.
Con sicura indifferenza.
Solo una sigaretta, chiede lui.
Solo una sigaretta.
E sparisce nelle spinte di un corridoio.
Rincorso da un pianto accartocciato come un pacchetto di MS.
Ai margini.

P.s.
L’immagine è di http://digilander.libero.it/kapibeatrix/suz.jpg

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