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Il cortocircuito di Verdini ed il rumoroso silenzio di Berlusconi

8 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
27/07/2010

Bettino-Craxi-1976-Venezia2Altri tempi ed altri mondi, quelli dell'immagine.
Il tema di oggi è di bassa cucina.
Lo legge bene Massimo Franco nella sua nota per internisti del Corsera.
Verdini si dimette da Presidente del Credito cooperativo di Campi Bisenzio – e con lui, per solidarietà, l'intero Consiglio di Amministrazione – ma non da parlamentare né da dirigente del PdL.
Per il notista politico del Corriere, il punto sarebbe che in questo modo, Verdini avrebbe dimostrato di avere molto più riguardo per gli interessi degli azionisti di cui è stato presidente per lunghi anni piuttosto che per il corpo elettorale e la forza politica che ha contribuito a costituire aderendovi sin dalla prima ora.
E' una visione corretta, ma che merita di essere contraddetta sotto un aspetto e precisata per un altro verso.
Per Franco, la funzione di rappresentanza politica è più importante di una banca.
Non è così, perché la questione non è di gerarchie fra ruoli e valori incarnati dai diversi ruoli. La questione è se il presidente di una banca possa essere anche un politico attivo senza con questo alterare la logica degli interessi perseguiti in un ruolo con quelli rivestiti dall'altro.
La logica dei prestiti di una banca può essere indifferente alla politica se il suo presidente è politicamente sensibile al punto di essere eletto come parlamentare e di coordinare il partito di maggioranza relativa nel paese? Nello stesso tempo, il partito di maggioranza relativa può essere coordinato da chi rappresenta anche gli interessi di un polo economico e finanziario di un certo peso?
Verdini, in altre parole, non si doveva dimettere da entrambe le cariche e l'anomalia non è che si sia dimesso da presidente della banca che guidava e non da coordinatore del PdL. L'anomalia, il cortocircuito nel ragionamento di Franco, è che chi coordina un partito non può essere anche il presidente di una banca e viceversa.
La precisazione riguarda il silenzio di Berlusconi, che questa volta ha sentito il bisogno di dire: Io me ne sto zitto e qualsiasi dichiarazione mi venga attribuita dai mass media domani, ovvero oggi, è una falsità ed una invenzione.
E' una dichiarazione singolare: non è nel carattere del primo ministro indossare il bavaglio e allontanarsi dalla bagarre mediatica nella quale sa sguazzare come pochi altri e non può significare quello che significano letteralmente le parole che la compongono.
Sarebbe come se Berlusconi dicesse pubblicamente che oggi il suo cervello ha preso un giorno di vacanza.
No, vuol dire un'altra cosa: Io di Verdini me ne frego, della questione morale nel PdL me ne lavo le mani, ci sono cose ben più importanti.
Triste, soprattutto se la cosa più importante di queste ore è abbassare i quorum per l'elezione dei membri laici del CSM e quindi abbandonare una logica saggiamente bipartisan nella formazione degli organi di garanzia.

L’ammorbidente irrituale di un ministero law cost

6 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
28/06/2010

NapolitanoNessuna simpatia per il ministro Brancher.
Un senso di grave fastidio.
Per un ministro nominato in assenza di una delega precisa.
Per l'uso del legittimo impedimento che in assenza di una delega precisa non può essere giustificato.
Sul piano costituzionale, è il Presidente della Repubblica che ha la responsabilità politica di nominare il Presidente del Consiglio dei ministri, ma è questo che ha la responsabilità politica di nominare i ministri.
Nel caso dei ministri con portafoglio, ovvero dei ministri la cui esistenza è fissata da norme di legge generali ed astratte che individuano il dicastero e le relative competenze, la responsabilità del Capo del governo riguarda solo la persona scelta a ricoprire una carica.
Nel caso dei ministri senza portafoglio, la responsabilità del Capo del governo riguarda anche la delega che lo stesso conferisce al ministro e che deve essere giustificata da una esigenza politica concreta e ben delineata.
Qui, questa esigenza non risulta con chiarezza.
La delega al ministro Brancher è cambiata molte volte nei giornali e non è mai arrivata sulla gazzetta ufficiale della Repubblica.
La delega del ministro senza portafogli è la misura delle sue attribuzioni, la quota di potere di governo che gli viene trasferita dal Presidente del Consiglio dei ministri.
Senza questo atto, non si può parlare di legittimo impedimento perché non si sa che cosa impedisce al ministro di compiere il suo dovere di cittadino e presentarsi in tribunale o lasciare che il tribunale svolga il suo compito senza la sua presenza.
Di qui, il grave fastidio per un pasticcio di bassa politica collegata al dialogo/scontro fra PdL e Lega, nelle immagini più ottimistiche, alla necessità di evitare processi imbarazzanti per l'intera compagine di governo, nelle visioni meno celesti.
Ma il Capo dello Stato non ha alcun potere di pronunciarsi sulla esistenza del legittimo impedimento.
Il legittimo impedimento è stabilito da una legge (n. 51 del 7 aprile 2010) che egli ha promulgato e che promulgano ha consegnato alla magistratura che dovrà farne applicazione.
Sono i giudici che devono giudicare del legittimo impedimento dell'imputato Brancher a presenziare alle udienze in cui è giudicato, senza che il Capo dello Stato possa intervenire.
Ferruccio De Bortoli, sul corsera di oggi, sottolinea che il Capo dello Stato ha molto apprezzato l'intervento di Ainis sulla Stampa di sabato 26 giugno.
Ainis è un costituzionalista molto serio e molto attento.
Ma il suo intervento è particolarmente criticabile: si legge che il Presidente della Repubblica è custode di valori etici e che, siccome presiede il Consiglio Superiore della Magistratura, può fornire alla magistratura stessa l'avallo per l'interpretazione costituzionalmente preferibile di una disposizione di legge.
E' un modo pericoloso di guardare al ruolo del Capo dello Stato, che in questo modo diventa una magistratura politica in grado di influenzare le magistrature giudiziarie.
Il fatto che il Capo dello Stato veda con favore questa intepretazione del suo ruolo è un messaggio preoccupante, il messaggio di una carica dello Stato in forte avanzamento verso (e contro) altre cariche dello Stato che dovrebbe fronteggiare in una posizione di equilibrio, ma che non dovrebbe accerchiare con il peso della propria irresponsabilità politica.
Tutto questo è molto pericoloso e dovrebbe essere visto con estrema preoccupazione da sinistra, perché i presidenti della repubblica hanno il vizio di non essere giovani e potrebbe essere questa legislatura ad occuparsi della sua sostituzione: un Napolitano forte è un atout delle sinistre, ma il prossimo capo dello Stato potrebbe non essere di sinistra e sicuramente si approprierà dei progressi compiuti da Napolitano nella conquista del potere politico concreto.
L'irritualità del Capo dello Stato rende meno antipatico il povero Brancher, che non si trova in una bella situazione, anche se, con un bel colpo di orgoglio, riesce a agganciare il premio del ministro più law cost della storia repubblicana, dichiarando che è perseguitato a causa di Lippi e della pessima figura della nostra nazionale.
Per fortuna, la destra si sa fare male da sola.
Perché in questo caso, la posizione di Napolitano fa male davvero.
Alla democrazia, complessivamente intesa e non solo a Brancher.

Scaglie di saggezza

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
03/05/2010

scajola1705
Il povero ministro Scajola è un politico onesto.
Ci si può credere.
Lo dice sua figlia.
Come si può credere alle mie quando dicono che sono bello.

Libertà nella rete (A proposito del Popolo delle Libertà e dei suoi indirizzi sull’internet)

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
22/12/2009

giornali_strilloneIl senatore Raffaele Lauro ha presentato – alla stampa, ma non al Senato – un disegno di legge con cui proporrebbe di punire con una aggravante i reati di apologia ed istigazione commessi per il tramite della rete.
I reati di apologia e di istigazioni rappresentano un terreno costituzionalmente molto delicato: il confine della libertà di manifestazione del pensiero "lecita" e necessaria per l’affermazione dei valori costituzionali con quel pensiero che è talmente vicino all’azione da confondersi con essa.
E’ un tema vecchio: in realtà, probabilmente, dal punto di vista logico distinguere fra diverse categorie di pensiero sulla base della loro contiguità all’azione è un esercizio impossibile.
Una democrazia esige che la libertà di manifestazione del pensiero possa avere anche contenuto eversivo dell’ordine costituzionale: un partito politico può essere antisistema. Tuttavia il confine fra la normale attività di propaganda di un partito politico antisistema e l’apologia del reato di insurrezione armata ovvero l’istigazione all’attentato contro la Costituzione può essere molto labile.
Più interessante la questione del mezzo utilizzato: la rete diventa una aggravante.
Perché?
Perché usare la rete per diffondere le proprie opinioni politiche è più pericoloso di qualsiasi altro media?
La vera differenza fra la rete e gli altri mezzi di comunicazione è l’accessibilità e la costruzione di un modello democratico in cui è possibile la libera associazione fra quanti hanno idee e sentimenti simili fra di loro, senza alcuna barriera sociale o economica.
Il sottoscritto accede molto facilmente al suo blog per postare le sue idee, ha molte più difficoltà a scrivere per il Corsera o ad essere invitato da Vespa nel suo salotto pomeridianamente differito.
Questo rischia di dare molto fastidio e genera disegni di legge come quello annunciato, ma non presentato, più un cadeaux che un progetto di legge, dal senatore Lauro.
Ma non è Lauro che preoccupa di più in questo periodo.
Preoccupa il processo Vivi Down.
In questo processo, che sta arrivando a sentenza, quattro top manager di Google sono accusati di non avere impedito la trasmissione tramite You Tube di un video in cui un ragazzo affetto dalla sindrome di Down veniva vessato.
Un terribilmente banale episodio di cyberbullismo.
Per la pubblica accusa, Google, in persona dei suoi top manager, avrebbe dovuto impedire la diffusione di questo video.
L’accusa è eversiva di una serie di norme giurisprudenziali e di legge: il "service provider" che si limiti a concedere l’accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d’autore eventualmente compiuta da quest’ultimo (in questi termini, già: Tribunale  Cuneo, 23 giugno 1997, in Giur. piemontese 1997, 493).
Questo indirizzo giurisprudenziale si è consolidato nell’art. 16, primo comma, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, per il quale:
Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: (a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; (b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
E’ una norma che, per la libertà di manifestazione del pensiero, ha un valore materialmente costituzionale, perché consente a qualunque persona di accedere alla rete e rendere accessibili le proprie idee senza subire il controllo preventivo di nessuno.
La sottile censura del processo Vivi Down, dal nome della associazione che lo promuove come parte civile, è pericolosa perché introduce nella rete una nuova tensione: le policies dei Service Provider in materia di privacy, per citare Facebook, ovvero di diritto di autore, per ricordare The Pirate Bay, possono decidere che cosa pensano le persone.
La tenaglia dei due movimenti, la giurisprudenza milanese del caso Vivi Down e l’aggravante Lauro, può rendere molto difficile manifestare il proprio pensiero ed è pericolosamente vicina ad un sentimento autoritario della rete che fa rabbrividire.

Ci può essere giustizia senza condanna?

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12/12/2009

300px-Milano_-_Piazza_Fontana_-_Lapide_VittimePiazza Fontana pone molte domande.
Le continua a porre malgrado gli anni trascorsi.
Domande inutili, secondo il J’Accuse di Pasolini sul Corsera del 14 novembre 1974.
Che, però, riguardano la stessa costruzione retorica della democrazia in Italia.
La più classica di queste è se possa esistere una giustizia senza la condanna dei colpevoli.
Si aggancia ad una domanda più radicale: può esistere una democrazia senza giustizia?
La giustizia non è la condanna del colpevole.
E’ la seriamente pervicace ricerca del colpevole attraverso un processo giusto e fondato sulla presunzione di innocenza.
La giustizia può esistere senza condanne.
Non può esistere senza un giusto processo.
La democrazia ha bisogno della ricerca della verità, ma non della verità.
Piazza Fontana, secondo questo J’accuse, può entrare nel dibattito sul processo breve.
Il processo breve impone una selezione dei processi: non tutti i fatti che chiedono un processo possono essere oggetto di un processo se il processo deve essere breve.
La giustizia assume un tono aziendale.
Deve selezionare i casi che può affrontare con le proprie forze e accettare che per tutti gli altri casi il perdono della prescrizione cada sul bisogno di giustizia delle vittime.
Il punto del processo breve è questo: Chi decide chi deve avere giustizia?
E’ una decisione politica, perché la giustizia diventa un bene scarso e si deve scegliere chi la può ricevere.
Significa scegliere un nome su una lapide e scartare gli altri.
In questo schema, forse, il processo per Piazza Fontana non sarebbe più possibile perché toglierebbe troppi spazi ad altri processi.
In questo schema, la democrazia sceglie le verità che le interessa ricercare e, forse, smette di essere una democrazia.

Scommettiamo che tra qualche giorno non se ne parla più (Casta Gifuni)?

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
02/12/2009

Gaetano_GifuniGifuni è un gran commis d’etat.
Un vero gran commis d’etat.
A lungo segretario generale del Senato, ministro per i rapporti con il Parlamento in un governo Fanfani, ha terminato la sua carriera come segretario della Presidenza della Repubblica.
Una carriera apparentemente senza ombre, iniziata per concorso e terminata con l’unanime riconoscimento di massimo esperto delle prassi costituzionali.
La Presidenza della Repubblica vive di prassi costituzionali e attraverso le prassi costruisce il suo ruolo e, nelle prassi costituzionali, ad esempio in materia di formazione del governo o di gestione dei disegni di legge di iniziativa governativa, il segretario generale della Presidenza della Repubblica ha un ruolo delicatissimo e spesso decisivo.
Gifuni nella elaborazione di queste prassi è stato un ingegnere dalle qualità eccezionali.
Forse, un genio.
Un genio che è stato beccato con le mani nella marmellata.
Una marmellata che è eversiva delle prassi costituzionali finora in vigore e che Napolitano ha apertamente infranto.
La questione è facile, facile.
La Presidenza della Repubblica ha autonomia contabile.
Il che significa che i controlli con cui lo Stato deve assicurare, attraverso un terzo imparziale, che i denari provenienti dalla generalità dei contribuenti e destinati al soddisfacimento di interessi pubblici siano effettivametne impiegati a questo scopo, nel caso della Presidenza della Repubblica, come degli altri organi costituzionali, sono interni alla Presidenza della Repubblica stessa.
Questo principio è stato affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 129 del 1981, proprio in un caso in cui la Corte dei Conti aveva avuto l’ardire di pretendere di sottoporre alla propria giurisdizione il controllo sulla dotazione della Presidenza della Repubblica e delle Camere.
Tradotto in pratica il principio della autonomia contabile della Presidenza della Repubblica funzionava con i denari della dotazione nella cassaforte del cassiere e gli alti funzionari della Presidenza che prelevavano liberamente sottoscrivendo delle ricevute che definire ironiche è un complimento.
Uno di questi signori era il nipote del Segretario Generale, il quale si era anche fatto una villetta abusiva nella tenuta di Castelporziano, senza i necessari permessi, ma in virtù di un provvedimento del Segretario Generale.
Brutta storia.
Brusca inversione delle prassi costituzionali da parte del Presidente Napolitano, il quale ha – giustamente – considerato che in questo caso il principio della autonomia costituzionale della Presidenza suonava come I panni sporchi si lavano in famiglia ed ha trasmesso il fascicolo sugli ammanchi e le altre irregolarità alla Procura della Repubblica.
Una scelta che suona come rinuncia alle prerogative stabilite da Corte 129 del 1981 e come volontaria sottoposizione alla supremazia della legge da parte della suprema carica dello Stato.
Una scelta che probabilmente Gifuni non avrebbe condiviso e che forse pensava che nessun Capo dello Stato avrebbe avuto il coraggio di compiere: nessun potere rinuncia mai volontariamente alle proprie guarentigie.
Tuttavia è una scelta che può far pensare in chiave di moral suasion.
Può far pensare talmente tanto che si può scommettere che nessuno fra qualche giorno ne parlerà più.
Esattamente come nessuno, nelle cronache che si dilungano sui nepotismo di Gifuni, ha commentato il valore costituzionale della denuncia di Napolitano.

68, 90 e 96 sulla ruota di Roma (Parametri a caso in una difesa parlamentare)

7 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
29/10/2009

lottoC’è un ministro del Parlamento che si chiama Altero Matteoli.
Il nome sa di risorgimento.
Lo scandalo in cui è coinvolto meno.
Questo ministro viene a sapere che un prefetto è sottoposto ad una indagine penale e che le comunicazioni del funzionario sono intercettate dalla Procura.
Avverte il funzionario di entrambe le cose.
Di conseguenza, viene intrapreso un procedimento a suo carico in cui si deve accertare se ha violato il segreto di ufficio o se ha illecitamente favorito il prefetto.
Questo ministro ha un avvocato che si chiama Consolo e che è parlamentare.
La tesi del legale del ministro è che il ministro abbia commesso un reato ministeriale e che: (i) debba essere giudicato dal Tribunale dei Ministri; (ii) la Camera dei Deputati debba pronunciarsi sulla autorizzazione a procedere nei confronti del ministro.
Il punto, che può sfuggire, è che i ministri godono di un regime penale singolare, che subordina l’esercizio della azione penale nei loro confronti alla autorizzazione di una Camera, solo per i reati ministeriali, ovvero per le fattispecie criminose che siano collegate all’esercizio delle loro funzioni di governo.
L’idea è che il ministro, in quanto vertice dell’esecutivo, possa andare oltre alla lettera della legge e commettere anche dei reati, che possono trovare una giustificazione politica e che in questi casi la giustificazione politica possa consentire l’assoluzione del ministro.
Questo accade nei casi in cui la Camera – a maggioranza assoluta dei propri membri – giudichi che il ministro ha agito per la tutela di un interesse costituzionalmente rilevante ovvero per il conseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo (art. 9, terzo comma, legge cost. 1/1989).
Questa valutazione è una valutazione politica e come tale insindacabile.
Di conseguenza, la Camera di appartenenza del ministro può, con un voto a maggioranza assoluta, assolverlo.
La maggioranza del voto è la motivazione dei presupposti di cui all’art. 9, terzo comma, legge cost. 1/1989.
Che perciò potrebbero anche non sussistere, ma essere egualmente dichiarati, con l’unica sanzione della responsabilità politica del voto parlamentare.
In altre parole, una maggioranza forte è arbitra dell’esercizio dell’azione penale nei confronti dei membri del governo purché l’azione penale riguardi dei reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali.
Di conseguenza, il nodo è di carattere procedurale e riguarda il soggetto che è chiamato a definire un determinato fatto come commesso nell’esercizio delle funzioni di governo.
Ad oggi, una piana lettura dell’art. 2, legge 219 del 1989, in combinato disposto con gli artt. 6 e 7, legge cost. 1/1989, riserva questa attribuzione al Procuratore della Repubblica del tribunale nella cui circoscrizione si è commesso il fatto, che deve trasmettere le denunzie al Collegio previsto dall’art. 7, legge cost. 1/1989 ed al Collegio inquirente che deve compiere tutte le indagini del caso restituendo gli atti al Procuratore della Repubblica che procede a richiedere l’autorizzazione a procedere nel caso in cui ritenga ragionevolmente fondate le accuse ovvero procede alla archiviazione.
In questa attribuzione, non vi è alcuno spazio per gli organismi parlamentari: è la magistratura che decide se quel determinato fatto ipotizzato a carico di un ministro è un reato ministeriale e quindi sottoposto ad un filtro di carattere politico oppure un reato comune per il quale il ministro è responsabile esattamente come ogni altro cittadino.
Il Parlamento, ieri, con una larga maggioranza, ha invertito questa posizione deliberando che spetta alla Camera decidere sulla natura politica o meno del reato ministeriale.
E’ una decisione che si presta a molte critiche.
La prima è di carattere logico: la legge cost. 1/1989 ha introdotto una condizione di procedibilità per l’esercizio della azione penale nei confronti dei reati ministeriali. Il giudice naturale delle condizioni di procedibilità è il giudice penale che come giudica dell’azione penale giudica anche delle condizioni di procedibilità della stessa. Questa osservazione è stressata, nel senso di sottolineata con forza, dal disegno di legge 891 del 2008, a firma Consolo, dove la pregiudizialità della valutazione parlamentare è imposta con una modifica espressa dell’art. 2, legge 219 del 1989 e sul piano intellettuale presentare un disegno di legge che prevede l’esercizio di una attribuzione significa confessare che sino a quel momento quella attribuzione non è riconosciuta a favore del soggetto cui si intende attribuirla.
La seconda è di carattere costituzionale: il dibattito parlamentare ha fatto tesoro della giurisprudenza costituzionale sviluppata sull’art. 68, Cost, che garantisce l’irresponsabilità dei parlamentari per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Secondo questa giurisprudenza spetta alle Camere stabilire se una opinione o un voto sono inerenti all’esercizio delle funzioni parlamentari, perché la prerogativa della insindacabilità si salda alla autonomia del Parlamento. Ma l’art. 96, Cost. non riguarda l’autonomia del Governo, nevvero che il voto sulla autorizzazione a procedere è affidato al Parlamento, che in questo modo esercita la propria funzione di controllo politico sull’operato ministeriale.
La terza è sempre di carattere costituzione e riguarda l’art. 90, Cost, non evocato nel dibattito parlamentare. Il giudizio penale sulla responsabilità del Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla Costituzione è affidato alla Corte costituzionale, sulla base delle indagini svolte dal comitato di cui all’art. 12, legge cost. 1/1953. Questo comitato viene equiparato dall’art. 5, legge 219 del 1989 al collegio di cui all’art. 7, legge cost. 1/1989 ed ha il compito, così l’art. 8, secondo comma, legge 219 del 1989, di stabilire se i fatti per i quali si sta esercitando l’azione penale cadono o meno nell’ambito di applicazione dell’art. 90, Cost. Se è così, per logica sistematica, il collegio di cui all’art. 7, legge 219 del 1989 ha il compito di effettuare la stessa valutazione con riferimento all’art. 96, Cost.
La decisione della Camera dei Deputati, però, pone una questione molto più grave: se una camera può decidere a maggioranza assoluta di considerare come reato ministeriale qualsiasi fatto per il quale siano in corso delle indagini nei confronti di un membro del governo, la definizione di reato ministeriale diventa politica e questo è possibile solo nel caso di cui all’art. 90, Cost, per la particolare posizione del Capo dello Stato nella forma di governo ed il peculiare disegno della responsabilità penale "aperta" disegnata dalla Costituzione nei suoi riguardi come una sorta di spada di Damocle.
Significa affidare il compito, l’attribuzione costituzionale, di decidere se un ministro può essere sottoposto a processo ad una maggioranza politica, con una torsione non indifferente dei principi dello Stato di diritto.
Di Pietro, ieri, è stato molto efficace sul punto: Che ci azzecca un ministro che dice ad un prefetto che è indagato e che deve stare attento quando parla al telefono con il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico connesso all’esercizio delle funzioni di governo?
C’entra 375 "si" contro 199 "no".
Solo questo e non altro.

Finale di partito al Colle Bereto

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
23/06/2009

colle2-1Primo scenario:
Mattina presto.
Molto presto.
Ingresso secondario della Procura della Repubblica.
Avvocati che non si vedono normalmente su questi selciati.
Di un certo tono.
Che godono di una certa familiarità con la magistratura requirente.
Strano.
Un avvocato del genere se è qui e aspetta fuori è perché deve parlare con urgenza.

Secondo scenario
Si scopre che durante la notte molti studi professionali e abitazioni sono stati perquisiti.
Si scopre che sono stati messi i sigilli a quattro locali ben frequentati per eccessivo uso di cocaina nei privèe.
Si possono immaginare, senza crederci, naturalmente, le ragioni della presenza degli avvocati.
Quei locali erano ben frequentati.
In particolare, da certi politici molto legati alla Amministrazione comunale appena trapassata e dallo stesso Matteo Renzi che ci ha trascorso una non minore parte della sua campagna elettorale.
Strano che di una cosa che tutti sapevano e sanno, nessuno si fosse mai accorto, malgrado che due di essi si trovino nello stesso isolato della Procura della Repubblica.

Terzo scenario
Potrebbe essere iniziato un interessante finale di partita.
Magari adesso qualcuno scoprirà anche che sopra uno di questi locali c’è una casa di appuntamenti.
O c’era fino a pochi giorni fa.
Ma lì ci andavano davvero in troppi.

Scorte e scortati

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
30/10/2007

Pare che il giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Milano, Clementina Forleo, abbia rinunciato alla scorta.
Le ragioni, per quanto si può comprendere dalla rassegna della stampa parlamentare, sarebbero nella attiva omissione da parte dei carabinieri e dall’atteggiamento non troppo trasparente dei vertici dell’Arma.
La dott.ssa Forleo avrebbe dichiarato che i pericoli alla sua incolumità non provengono dalla piazza ma dai palazzi, lasciando intendere disegni eversivi a suo danno.
Per la Costituzione, il magistrato è soggetto soltanto alla legge e questo principio non è soltanto una guarentigia, ma anche un dovere morale: il magistrato è soggetto soltanto alla legge sia perché la sua funzione è unicamente la traslitterazione della volontà astratta del legislatore in volontà concrete di legge, senza che alcun potere vi posso interferire, perché egli è chiamato unicamente all’esercizio della funzione giurisdizionale, al tradurre il fatto in diritto, senza poter interferire nell’esercizio degli altri poteri dello Stato.
I giudici che si sganciano dalla legge per dialogare con l’opinione pubblica possono fare paura, perché si svincolano dal dovere di equilibrio che incombe su ogni potere costituzionale.
Anche sul piano pratico, può non essere semplice comprendere il significato dei timori della dott.ssa Forleo.
Le scorte, fin dai tempi di Tiberio, che sceglieva la sua guardia fra germani incapaci di parlare o intendere il latino, sono un potenziale pericolo per gli scortati.
Notoriamente le scorte dipendono da un dicastero al quale riferiscono della attività degli scortati, non foss’altro per giustificare i pedaggi o il consumo del combustibile.
Di solito, lo scortato usa della scorta unicamente per i doveri del proprio ufficio e nessuno ha qualcosa da nascondere se la sua scorta lo accompagna da casa al tribunale o viceversa.
Se, invece, si usa della scorta per portare le veline in albergo, come pare fosse abitudine di Salvo Sottile, allora la questione può essere delicata.
Ma se la dott.ssa Forleo usava la sua scorta solo per andare in tribunale o per adempiere agli altri doveri del suo ufficio che cosa doveva temere? Che la scorta si ribellasse organizzando un rapimento, quasi che la Forleo fosse il povero Abu Omar?
Francamente sembrano scenari complessi da sostenere anche in un clima malato di dietrologia.
In realtà, uno dei problemi della giustizia è proprio la soggezione dei magistrati alla legge: siamo sicuri che una udienza preliminare su D’Alema e Fassino, una indagine penale su Mastella, una indagine su Lele Mora sarebbero stati condotti in questo modo da un giudice soggetto soltanto alla legge?
Non lo so.
Ed in questo non saperlo, il sapere che un magistrato non vuol far sapere al ministero della difesa i suoi spostamenti non aiuta.

L’uccello di Clemente

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/10/2007

New York, 8 ottobre 2007 – Columbus Day (che peraltro cade il 12 ottobre)
Il ministro della giustizia, e non anche della grazia, italiano sbotta in un simpatico: "I biglietti, li ho pagati io, per i cazzi miei: 8.800Euro per me e mia moglie Sandra".
Di conseguenza l’uccello del ministro vale più di ottomila Euro, quasi novemila.
Non è male.
A parte, il feticismo, quello che conta mi pare che siano due polemiche.
Da una parte, i costi della politica e dell’uso personale della politica. E’ una polemica che si affaccia dai tempi della unificazione, che ha ammalato politici, come Giolitti, dallo spessore un pò più denso del guardasigilli di Ceppaloni.
E’ una polemica su cui continua a valere la pena di interrogarsi perché coinvolge il prezzo del consenso e le dinamiche della democrazia.
Temo, però, che sia una polemica vecchia: il consenso si forma in maniera sempre meno clientelare.
O meglio attraverso clientele sempre meno ceppalonesche.
E’ sempre più vecchio, e forse anche sterile, il meccanismo del voto di scambio, il prezzo dello scambio ha un moltiplicatore molto più basso del costo della propaganda.
Le autoreggenti della Brambilla generano più consenso per Berlusconi di un posto alle poste e gli costano molto meno.
La seconda polemica riguarda l’autonomia della magistratura.
Qui, forse, Mastella non ha tutti torti.
Esiste uno scandalo in Lucania: avvocati e magistrati che pilotavano le cause, non solo penali, ma soprattutto civili, per il tramite di una consorteria trasversale al sistema politico e fortemente interconnessa con lo stesso.
E’ uno scandalo di cui non si comprendono bene i confini.
I giornali ne hanno sempre parlato nelle pagine interne.
Non è facile nemmeno rammentare il suo esatto contenuto.
La comunicazione di questo scandalo oggi è che il magistrato coraggioso che ha cercato di portare in dibattimento il malaffare rischia di essere trasferito.
Ma:
(i)   questo magistrato aveva chiesto di essere trasferito a Napoli per motivi personali, sicché aveva già deciso di mollare l’osso;
(ii)  questo stesso magistrato ha consumato somme particolarmente ingenti, oltre un milione e mezzo di Euro, in indagini che potevano essere delegate alla polizia giudiziaria, come indagini assai più complesse e delicate sono state affidate alla polizia giudiziaria da Falcone o Borsellino;
(iii)  vi è nella autonomia costituzionale della magistratura, un duplice filtro: da una parte, gli ispettori ministeriali cui sono affidate le indagini che sole possono giustificare l’attivazione del potere disciplinare del CSM su impulso del guardasigilli sono magistrati; dall’altra parte, il CSM è composto per due terzi da magistrati, sicché il potere politico può materialmente molto poco nei confronti di un magistrato se la classe dei magistrati non condivide le sue censure.
In questo, Mastella mi pare che abbia assolutamente ragione: se i suoi ispettori gli denunciano delle irregolarità, lui ha il dovere di attivare il consiglio supremo della magistratura ed il consiglio ha il dovere di verificare la sostanza di queste irregolarità.
Aggiungo che, a mio parere, non è una irregolarità da poco l’esternalizzazione delle indagini. Lo Stato ha il dovere di far fronte alla lotta contro il malaffare utilizzando il proprio apparato perché la pubblica amministrazione è vincolata al principio di legalità ed al dovere di imparzialità. Fare a meno di questo appparato significa anche fare a meno di questi valori costituzionali. In questi casi, ci si deve chiedere perché il magistrato titolare delle indagini ha utilizzato dei consulenti di propria esclusiva fiducia e rispondersi che gli apparati dello Stato erano al servizio del malaffare può essere comodo.
Infine, dire che il CSM ha già censurato Mastella perché non ha concesso le misure cautelari che il guardasigilli chiedeva (così Giuseppe D’Avanzo su Repubblica di oggi) è falsificare la realtà: le misure cautelari sono concesse sulla base di una cognizione sommaria, che lascia del tutto impregiudicato il merito della questione.
Insomma, Mastella è un relitto storico.
Naif.
Non simpatico.
Odioso quando afferma di non poter essere sottoposto al giudizio della opinione pubblica perché sorretto dal voto massiccio dei suoi elettori.
Ma anche la magistratura non è sempre simpatica.

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