Occhi vuoti d’anima
Occhi che aspettano di essere riempiti
Che esistono in funzione di chi li fissa
Che una volta sono occhi amati
Un’altra occhi desiderati
Ovvero curiosi, divertiti, umiliati, piangenti
Ma sempre e soprattutto vuoti d’anima.
Le conversioni sono attimi di assoluto stupore
Hanno il sapore del fulmine: cammini sulla via di Damasco e inciampi in Dio come se fosse quello che resta della digestione di un randagio
Non quella di Maddalena
Lei non si stupisce di Dio: sapeva che Dio è il figlio dell’uomo anche se non lo aveva mai cercato. Conosceva troppo bene gli uomini per cercarne un altro
Aveva passato la sua vita a lasciarsi stuprare per dimenticare un amore tradito e non c’è nessun Dio nella violenza di un uomo
Maddalena si converte sui piedi del figlio dell’uomo e c’è tutto in quella sottomissione
Soprattutto c’è la comprensione che mai nessuno aveva saputo sfiorarla con amore di purezza, non perché il figlio dell’uomo non avesse cercato di lasciare una carezza sul suo sedere, ma perché mai nessuno lo aveva fatto con quella dolcezza.
La Musa non è sempre stata una musa
inconsapevole e profonda come un cielo stellato che contiene tutti i miti e li narra all’intelligenza di chi li scruta
capace di donare i baci della Venere Celeste, puri come l’amore di Venere Pandemia, di una puttana che sa fare il suo mestiere con coscienza di avvocato e scrupolo di ragioniere, che ci mette passione perché la sua professione non è l’amore ma l’illusione dell’amore
capace di essere puro amore di amore, capace di pensare di poter essere viva come una proprietà, proprietà di un cielo stellato, ma quando l’amore è un mestiere anche chi è amato vuole essere gratificato come un cliente che considera merce il cielo stellato
Musa ha divorato il cielo stellato dentro di sé, ha ingoiato tutte le sue stelle come sperma, lo ha dimenticato lasciando che il suo corpo fosse scempio e meraviglia, facendo diventare quello scempio e quella meraviglia piacere e vendetta, cercando chi sapeva essere più crudele nello stupro dello stelle
Godendo ogni volta che moriva una stella, piangendo nell’attimo del piacere, come se fosse normale, cercando ogni volta più crudeltà per saccheggiare il proprio cielo stellato, come quelle bande di norreni che sapevano che dopo il primo saccheggio chi si era nascosto usciva e si allontanavano per poter infierire oltre nella beffa dello sterminio
poi le stelle sono finite, sono morte in un nero di Kapoor, non sono sopravvissute a uno scempio ancora più terribile degli altri, e, finalmente, Musa ha trovato la notte senza ombre, si è lasciata attrarre dalla sua assenza di luce, come una calamita d’anime in un libro di Lovecraft o un maestro della notte in una canzone della PFM
ha consumato tutte le stelle, si ferma. Si deve fermare. Senza stelle non ci possono essere più stupri e Musa aveva fatto dello stupro il proprio diario sentimentale fino a morirne dentro come una figlia violentata davanti al padre nel pennello cinicamente disperato di Picasso
chi ha divorato tutte le sue stelle, può di nuovo cercare un manto che copra i suoi segni, un manto di Madonna del Beato Angelico?
Apocatastasi, grida nella notte d’Alessandria un lontano monaco castrato: nessuno ha diritto di essere lasciato lontano dalle stelle, neppure il demonio, neppure colui che ha passato la sua vita a lasciar stuprare le stelle da chi non sapeva leggervi i miti che l’undicesima musa aveva ricamato.
Non c’è stagione all’inferno senza apocatastasi, grida il lontano monaco castrato, mentre la sua notte si illumina di un faro.