Oggi, semplicemente, l’Arno è in tempesta
Una tempesta di fiume basta ad annegare
Non è necessario un oceano
Basta una tempesta di fiume
Poche cose bastano ad uccidere
Perché la morte è sempre lo stesso silenzio.
La velata è una donna sposata
Questo significa quel velo: che nessun uomo la può toccare o desiderare
Il simbolo di un comandamento: Non desiderare la donna d’altri, non desiderare la donna che indossa il velo
La donna è un velo che cade solo per un uomo, l’uomo cui lei ha deciso di appartenere, l’uomo che ha deciso di guadagnarsi quella fedeltà
Il velo non è un ornamento, è il parochet, la tenda che nel tempio nasconde l’arca dell’alleanza
La velata di questo sogno ha strappato il suo velo
Si è liberata dall’alleanza
Ha calpestato ogni vincolo
Ha deciso di camminare libera verso ciò che, semplicemente, la fa sentire viva
Di lasciarsi toccare, desiderare, persino stuprare, da qualsiasi uomo la desideri
Di diventare Venere
A un solo patto: nessuno le imporrà più il suo velo
E allora lei sarà tutto ciò che si può desiderare
A un solo patto: nessuno può pensare di possederla, nessuno tranne forse quel pittore che ne è riuscito a cogliere l’enigmatica essenza
Perché questo racconta il quadro di Raffaello: lei porta il velo e ne è felice perché il suo uomo ha saputo cogliere ogni segreto della sua anima nelle pieghe del dipinto
Ma la velata di questo sogno ha rinunciato a lasciar dipingere la sua anima, troppe volte è stata dipinta senza comprensione, troppe volte è stata raccontata in grottesche d’arte degenerata, si è stancata, ha squarciato il velo che la imprigionava in un’arca e ha ricominciato a danzare, lontana dai dipinti che amandola la tradivano.
Prima il dovere può essere considerato il filo rosso della tua vita.
Per molti anni, hai messo davanti a tutto il dovere.
Il dovere di essere quello che gli altri avevano bisogno che tu fossi, di indossare un sorriso perfetto, di essere all’altezza dei loro sogni.
Non quando ti ho incontrata. Quando ti ho vista per la prima volta avevi trovato la persona che aveva saputo guardare dentro di te. Ricordo sei parole, dette con la grazia con cui sfioravi l’essenza delle cose senza la volgarità di renderlo palese: Prima di conoscere G, mi sentivo invisibile.
Una notte di dieci anni fa, mentre ballavi come una ragazzina con G e quegli arruffati capelli bianchi che avresti sposato nove anni dopo e per meno di un anno, quando sapevi che il matrimonio non avrebbe distanziato il destino.
Un destino senza compassione e senza pietà ti ha condannata a morire, a tornare nel mondo di prima, quando il dovere veniva anzitutto.
E sei andata via, la mattina di Natale, dopo avere ordinato il pesce per la Vigilia, dopo avere provato a cenare con le persone che più amavi, dopo esserti lasciati cullare dal rumoroso trastullarsi di tua nipote, dopo essere riuscita a preparare una casa nuova in cui sapevi che non saresti vissuta a lungo, la gioia di lasciare il tuo ordine per quegli arruffati capelli bianchi che adesso sono restati soli perché dopo di te la solitudine è un antro ancora più profondo.
Sei andata via sussurrando che ti dispiaceva. Come se la morte, persino la morte del più subdolo dei tumori, fosse colpa tua. Eri abituata così: quando il dovere viene prima di tutto, ci si sente colpevoli anche per la pioggia.
Sei andata via come chi lascia una festa perché viene chiamato altrove da un dovere a cui non si può dire di no e non ha il tempo di salutare tutti. Come una ragazza di buona famiglia che viene chiamata dal padre prima di mezzanotte e si allontana dicendo al fidanzato deluso che avrebbe ancora voluto ballare con lei che le dispiace di quel padre un po’ tiranno .
Non eri una persona che sarebbe restata fino alla fine. Non si addiceva alla tua grazia sopravvivere. Solo questa consolazione mi viene in mente: che se sei andata via troppo presto, per te sarebbe stato orrendo restare dopo la fine, quando le bollicine hanno perso il perlage e gli alcolici sono impastati nella bocca di chi ha già bevuto troppo.
Perdonami per queste parole che ho durato fatica a trovare perché tu mi leggevi e ti piaceva leggermi, sicché ti ho voluto scrivere come se tu mi potessi ancora leggere nel luogo in cui sei volata.
Chi sa scrivere vede l’immagine dei sentimenti e conosce il suo nome mentre la evoca sulla tastiera. Si sa scrivere quando i sentimenti sono immagini. Non quando sono un ricordo che piange forte dentro di noi.