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Sei cattivo

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
19/12/2020

Sono cattivo quando dico la verità.

Che è un esercizio che non amo. E’ inutile dire la verità a chi non l’ama e chi l’ama non ha bisogno delle mie parole.

Che è un esercizio crudele perché la verità serve per guardare in faccia quello che non si vuole vedere.

Così diventa buona la pietà delle bugie o la compassione del silenzio.

Ma mi ostino a dirla, ad essere crudele con quel pezzo di me stesso che ogni giorno si lascia morire, cercando la pace nei crampi della fame.

Mi ostino a non essere all’altezza dei suoi desideri, ruvide parole che dicono sempre la stessa cosa: non voglio smettere di amarti anche se so che amare è innamorarsi di un sogno, non si ama che se stessi, si ama un’immagine che abbiamo costruito dentro di noi, prendendo dalla nostra corteccia cerebrale i pixel che definiscono la persona che amiamo.

So benissimo che il padre che ami non sono io, è una parte di te.

Io devo solo essere all’altezza di questa immagine. Decidere di essere la persona che tu ami per poter essere amato da te.

E’ difficile, amore mio, farlo mentre la tua vita è una discesa verso un inferno di fame e angoscia.

E’ terribile essere l’amore di un inferno di fame e angoscia.

Così, sempre più spesso, ti dico la verità, ti impongo il dolore di non essere il padre che ami.

Ma, credimi, è un feroce strazio non sentirmi amato da te.

Nessuno sceglie dove nascere

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
13/12/2020

Nessuno sceglie dove nascere.

Neppure Cristo lo ha scelto. E’ nato in una grotta, o così si dice, durante un censimento: non a Gerusalemme e nemmeno a Roma o a Babilonia, come forse avrebbe preferito.

Non si sceglie dove si nasce e non si scelgono i genitori.

Nemmeno Gesù ha scelto sua madre o suo padre, né quella bambina che era stata scelta per lui da un arcangelo tanto algido quanto freddo e distaccato, né quel poveruomo che si è ritrovato un figlio d’altri in casa.

Eppure un genitore ha un dovere, un dovere solo, di desiderare quel figlio, anche se non lo avrebbe voluto. Anche se diventa altro da quello che avrebbe voluto mentre lo guardava in culla e pensava che non ci fossero altri bimbi più belli di questo. Una illusione feroce, necessaria per sopportare tutti i giorni in cui lo si vede crescere diverso e lontano dai propri sogni.

Il dovere di essere il miglior genitore per un figlio che non avrebbe voluto, per un figlio che ogni giorno si allontana dai sogni che si erano fatti guardandolo dormire nella sua culla, comprando giocattoli o insegnandogli a pedalare dritto, senza rotelle.

E lo stesso è per un figlio: accettare che i propri genitori non siano gli eroi della sua infanzia. Siano fragili, dimessi, distaccati, preda di ogni dubbio, spaventati dalla sua adolescenza e dai suoi successi.

Essere il miglior figlio per dei genitori che non si è desiderato, che ci hanno traditi, che si sono allontanati da noi ogni giorno, che non hanno capito il nostro dolore o le nostre gioie, che non ci hanno saputi vedere con l’amore che ci aspettavamo da noi.

E’ un mare l’amore che collega un figlio ai suoi genitori. Assomiglia al mare, ha lo stesso colore del mistero di un oceano che, a tratti, è sereno come il Sole di luglio e, subito dopo, sa essere tempesta come la Manica d’inverno. Il mare forma gentiluomini e pirati, ufficiali e pescatori perché sa essere cattivo e amorevole nello stesso tempo ma è sempre lontano e imprevedibile. Il mare è un cuore che sa timonare o la paura che si lascia travolgere.

Così è l’amore per un figlio o per un padre. Un mare che può far diventare grandi o che può perdere per sempre.

Freddy: come barbari che sacrificano il primogenito

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
11/12/2020

Freddy è una ragazza ferma sulla panca gelida del corridoio di attesa.

Freddy è con suo padre e suo padre indossa gli scarponi da muratore e le mani che conoscono il freddo della calce.

Ha la pulizia e l’odore di sapone di chi è abituato a lavorare con le mani.

Freddy ha le unghie colorate di nero e un cellulare con la custodia di Hello Kitty.

Ha i capelli lunghi, biondi e il viso sembra dolcissimo dietro la mascherina.

Freddy indossa lunghi pantaloni neri, svasati. Calzini da tennis bianchi, scarpe da ginnastica.

Il padre si china. Vede un filo di lana sui calzini. Si china e lo toglie. Con tutta la dolcezza di cui è capace.

Alza leggermente i pantaloni e si intravedono delle calze nere.

Li riabbassa con una carezza.

Perché Freddy si chiama Fernando. Non è una ragazza anche se si tinge le unghie e porta le calze e si è ammalato di anoressia.

Non riesco a non pensare che dai figli si sopporta tutto e ad avvertire tutto il mio fastidio per questo pensiero.

Dai figli non si deve sopportare niente perché se si sopporta significa che i figli quando sono quello che sono non sono quello che desideriamo che siano.

Ma un padre non ha il diritto di sperare che suo figlio sia qualcosa piuttosto che qualcuno, sia in un modo piuttosto che in un altro.

Ha il dovere di amare quello che è, nella sua nuda essenza di essere umano.

Di alzare, senza volere, un velo e riabbassarlo.

Baciandolo come quando si dà la buonanotte a un figlio appena nato e non si capisce che si sta baciando la propria speranza.

Come barbari che promettono il sacrificio del primogenito.

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