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30 marzo 1934

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
30/03/2020

Il 30 marzo 1934 non è un giorno importante nella storia di Italia, furono proclamati i risultati delle elezioni con cui il popolo italiano manifestò la propria adesione al fascismo, il Corriere della Sera ricorda la relazione del Presidente della Banca di Italia, qualche arresto di topi di appartamento, la messa del Giovedì santo dinanzi a Pio XI, la Fiorentina aveva pareggiato con l’Alessandria nell’anticipo di campionato necessario per festeggiare la Pasqua.

C’era tramontana a Firenze ed era venerdì santo: la Pasqua veniva presto in quell’anno.

A Firenze, lo stadio si chiamava Berta.

L’unica notizia di quel giorno, però, per me, sono i tuoi occhi, il loro azzurro tinto di grigio, quel colore che sapeva di pace e di quiete, che non aveva mai smesso di essere ingenuo, neppure quando si sono spenti.

Sono contento che tu non abbia vissuto questa peste, che tu non sia stata chiusa in casa da questa peste, che tu non abbia avuto paura di questo morbo che toglie il fiato e soffoca i sogni, che chiude i bambini in casa e si diffonde nel silenzio delle strade vuote.

Sono contento perché gli occhi di una madre segnano la vita, come quelli dei figli. Si vive per quello che vorremmo quegli occhi vedessero, per fargli vedere solo quello che vorrebbero vedere e io, mamma, questo mondo silenzioso non vorrei che tu lo vedessi, perché ti ricorderebbe tanto il mondo della guerra che i tuoi genitori non ti poterono evitare e che si intravede nelle cronache di quel giornale.

Tornerà come prima?

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
28/03/2020

Nemmeno in tempo di guerra

Anziani in fila per il pane. La mascherina calcata sul viso. Occhi soddisfatti: non sono più i soli a essere chiusi in casa. Tutti vivono come loro.

Non c’è festa in chi esce, c’è quella mestizia dell’ora d’aria in carcere, quando il passeggiare è consapevolezza di ciò che è proibito dal peso delle proprie colpe.

La casa è un modo diverso di lavorare, lontano dalle cose e dalle persone, le lezioni sono parole a un monitor e c’è una lentezza terribile in tutto.

Ci si parla a distanza, più di un metro, senza sfiorarsi, senza poter sussurrare e c’è vertigine, attesa, timore, palpabile e pesante.

Molti sono travisati, non mostrano il viso, si nascondono nelle loro mascherine, con la gioia di un carnevale di peste.

Niente tornerà come prima e non riavremo mai più quello che questa peste ci ha portato via mentre ci ammaleremo tutti di quello che ci ha donato: il senso della distanza e del travisamento, il timore di chi abbiamo amato e abbiamo perduto di travisamento e distanza.

Il dono della peste è il vuoto pubblico e sapere che si può vivere nel vuoto è non poterne più fare a meno.

Anche quando il caldo ci avrà restituito le piazze.

Va bene. Va bene così.

La tela di Penelope

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
11/01/2020

Penelope è una reggia vuota del suo re

Sono quelle stanze occupate da mille persone

Penelope sa benissimo come si riconosce un re

Un re pone il suo onore nel meritare fiducia. Ha il coraggio di esserci quando si ha bisogno di lui

Un re marinaio sa condurre la sua nave verso il porto, sa che navigare è riportare tutti i marinai che hanno messo la loro vita nelle sue mani alle loro case e lui per ultimo

Ulisse sapeva navigare, aveva il coraggio delle colonne d’Ercole, il coraggio di andare oltre il confine del mare e, soprattutto, di tenere la rotta quando il mare ribolle di sirene che chiedono solo di dimenticare una direzione, abbandonare la bussola, lasciarsi trasportare dalle onde, scomparire

Ulisse sapeva come si tradisce, sapeva usare l’astuzia dell’attesa, trasformare l’intelligenza in un tranello e in un inganno, perché un re vince le guerre, conquista il bottino di sangue che è la schiavitù di chi si è lasciato ingannare, di chi ha voluto l’inganno pur di finire una guerra, la morte per non aspettare la vita che si consuma dentro un assedio

Penelope aspetta il suo re nelle stanze del castello, finisce i suoi occhi al telaio, tesse come se non ci fosse nessun assedio, come se la nave di Ulisse non si incrociasse nel deserto mediterraneo con i lutti di Enea, non naufragasse nella ricerca di acqua, non soccombesse alla sordità dei banchetti di Didone

Si prostituisce all’assenza perché chi occupa la reggia non è un re ma sa offrire lo spazio di una gioia nel vuoto incavo della sua vagina secca di sale e lontane tempeste. Ama quei pretendenti. Di ognuno ama qualcosa. Di tutti ama il destino: morire di freccia, per mano di Re, morire perché la gioia di una regina deve soccombere al ritorno del suo signore

Nemmeno Omero, però, ha scritto cosa hanno fatto Ulisse e Penelope dopo quella strage danzante, dopo quelle frecce che hanno trafitto il cuore di coloro che avevano amato Penelope, di coloro che Penelope non aveva mai amato e ai quali aveva prostituito il suo bisogno di essere sazia e sola, di essere regina e vedova di un niente che sbiadiva il ricordo della sua anima

Non lo ha scritto perché non c’era più niente da raccontare. Perché Ulisse non ha solo trafitto il cuore di chi era colpevole di non essere amato. Perché alla fine Ulisse non poteva restare a Itaca, Itaca non poteva contenere i mari che lui portava dentro

Ulisse non è tornato a Itaca per restarci, è tornato perché aveva bisogno di Penelope per completare il suo viaggio. Per partire verso un dove che non conosce né ritorni né approdi.

 

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