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Profanazione: tutto ciò che non sarà mai più come prima

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
01/07/2020

Il pudore è l’ansiosa e impaziente vergogna di una vergine

Imbarazzo segretamente consapevole che nulla sarà mai più come prima quando altri la toccherà sapendo che non sarà per sempre sua

Perché in quella vergogna ansiosa e impaziente è inutile cercare quello che non c’è

Il dono di un segreto. Il segreto che i ragazzi sussurrano sghignazzando dopo aver preso quello non vogliono sia altro che selvaggina da divorare nel baccano d’una orgia

Le donne sono malaffare. Per tutti. Non solo per il loro re, il signore dio della loro vergogna

Se non è così, così che è normale, se l’uno ha rubato una vergogna d’altri e l’altra è evasa dalla sua gabbia donandone le chiavi a chi passava per caso, per farsi rapinare di una solitudine troppo rumorosa per essere contenuta dentro quattro sbarre per fragili uccelli esperti della solitudine del migrante che sa di trovare nel volo l’attimo in cui stremarsi e sfracellare,

Se non è così, così che è normale, allora che cosa resta?

Resta la profanazione, la libertà dei vichinghi. Di rapinare quello che non si capisce. Trasformare la fede in tortura. Sapendo che l’unico modo di possedere ciò che è d’altri è il disprezzo.

Quel disprezzo che diventa amara libertà per la vergine che ha donato le chiavi della sua gabbia e dolore d’infarto per colui che ha visto la tenace crudeltà vichinga strappare le sue palpebre perché nessun oltraggio conoscesse un oblio d’ombra.

Bimba piccola e il diritto dell’ambiente

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
30/06/2020

Notte in rada.

Chiacchiere da pozzetto.

Mi allungo sulla poppa per fare pipì.

Bimba Piccola mi guarda e chiede che fai?

Rispondo che si tratta di uno scarico non autorizzato e le spiego che dal 1976 in Italia tutti gli scarichi devono essere autorizzati.

Lei mi ascolta con sufficienza e mi chiede: Babbo, perché di notte sono scarichi non autorizzati e di giorno illeciti paesaggistici?

Le mani di Omero

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
26/06/2020

Author Jorge Luis Borges (1899 – 1986) at the front door of his home in Buenos Aires, Argentina, December 1983. (Photo by Christopher Pillitz/Getty Images)

Omero, come Borges, non è nato cieco. Ha visto la luce diventare lento tramonto e la penombra farsi notte.

I suoi figli, gli eroi che amava ospitandoli nel proprio cuore, sono diventati ombre di memoria quando i suoi occhi hanno smesso di vederli.

Ma Omero ha scoperto il potere delle mani, ha ritrovato la memoria di un volto accarezzandone i contorni. Non ha scoperto quel volto. Lo conosceva, lo aveva visto. Lo ha ritrovato nella notte degli occhi cercandolo con le mani, seguendolo con le dita, studiandolo con i polpastrelli.

Come il padre che diventa cieco e scopre di poter ancora vedere il viso d’un figlio accarezzandone i capelli, con lo stesso entusiasmo. Dolcemente avido.

Omero non ha usato le dita per ritrovare i suoi eroi e i loro miti. Ha preferito le parole. Le sue parole sono lemmi di cieco che ricostruiscono idee e immagini.

Così è quando si abbandona lo sguardo, si rinuncia a vedere.

Ci si rifugia nelle dita per capire il senso delle cose che solo la notte può contemplare senza che lo sguardo gli sia strage.

Si tocca ciò che non si può vedere.

Che non si vuole più vedere.

Sperando che il tatto sia verità quando lo sguardo era inganno.

Il campanello di Bimba Piccola

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
24/06/2020

Bimba Piccola suona il campanello con imperiosa cafonaggine.

Lo suona una volta e se nessuno le apre, perché in una casa grande tutti si aspettano che apra qualcun altro, suona di nuovo.

Con ancora più imperiosa cafonaggine.

Mi domando se non debba rimproverarla per questa sua abitudine che mi fa letteralmente saltare i nervi.

Mi dico di no.

Per Bimba Piccola, il tempo non è lo stesso che è per me.

Il suo tempo gira molto più velocemente del mio.

Il suo tempo davanti a una porta che non si apre è molto più lungo del mio davanti a una frase che non si compone da sola sulla tastiera.

Gli spettri di Itaca

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/06/2020

Le unghie si spezzano se le mani costruiscono qualcosa che non esiste, qualcosa che Penelope disfa mentre tu, il più inutile dei suoi corteggiatori, continui a cercare i suoi sogni e la sua pace.

Non puoi trovare la pace di una donna che ti guarda sognando un uomo in viaggio.

Non sei tu la sua pace, non sei tu i suoi sogni. Tu sei ciò che è casa quando la casa è vuota.

Lo sai, lo sai benissimo e sai anche che il tuo viaggio dovrebbe riprendere, non può essere fatto di parole che offendono l’intelligenza, di risposte che non hanno letto la sostanza del tuo cuore, che lo calpestano senza comprendere, senza che tu meriti di essere compreso.

Non ci sono lacrime negli occhi di Penelope quando Ulisse imbraccia il suo arco. C’è una sorda gioia che segue il percorso delle frecce che ti trafiggono. Tu la vedi quella sorda gioia. Ti trafigge prime delle frecce.

E resti in quella reggia perché il tuo cuore è diventato lo spettro di tutto quello che aveva sognato e indossa le sue catene sperando di non svegliare Penelope mentre dorme accanto al suo Ulisse, senza che tu sia mai stato veramente un suo pensiero.

Il fantasma di Anna Bolena

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
18/06/2020

Anna Bolena era una troia, non una troia da baraccone, ma una troia reale. Magari non era nemmeno troppo troia, magari non scopava con il fratello, il musico e il pirata, magari era solo una rompicoglioni ma il suo re decise che era una troia perché l’amava teneramente, profondamente, ingenuamente.

Anna Bolena aveva un amante, magari non ce l’aveva, ma il suo re decise che aveva un amante e che questo amante era un vichingo, che fosse il fratello, il musico o il pirata, chiunque di questi fosse, o fossero anche tutti e tre insieme, in ogni caso l’amante di Anna Bolena era un vichingo e la scopava come un vichingo prosciugandola e dissentandosi. Prosciugandosi e dissetandola.

Abbastanza per un processo: un re non si tradisce.

Abbastanza per una condanna a morte: un re non si tradisce con un vichingo.

Anna Bolena era una troia elegante e indossò il suo abito da sposa per il boia che l’avrebbe prosciugata senza dissetarsi, era un francese e non un vichingo. Provò la testa sul ceppo nella notte prima della esecuzione. Se si tradisce un re, si deve saper morire da regine, anche se il re non si è tradito, anche se il sesso con il vichingo, fratello, musico e pirata era un’invenzione di corte.

Anna Bolena era una troia piangente, capace di fuggire dagli Yeomen che la scortavano per spezzarsi le dita contro il granito della porta dietro alla quale Enrico pregava, perché i re pregano e gli dei hanno sempre belle parole per chi sa che cosa devono dire, ma non hanno orecchie per ascoltare chi gli chiede frasi che solo loro possono pronunciare.

Anna Bolena adesso è solo il fantasma di un’opera per abiti da sera e vernissage eleganti, ma a lungo è stata il fantasma dell’uomo che aveva tradito o che non aveva tradito, poco importa a una testa che rotola dal corpo. Quell’uomo che si era convinto che lei scopasse con un vichingo mentre lui l’amava teneramente. Che si era sentito umiliato dal fratello, musico e corsaro, dal loro dissetarsi dissetando, prosciugare prosciugandosi. Come si può sentire defraudato un amore tenero da un amore selvaggio, quasi un teorema per Sanremo. Ma non era così: le donna che si dissetano prosciugandosi, che non si fermano alla prima fonte che trovano lungo il sentiero, che cercano il sapore di tutte le bottiglie che un sommelier può aprire durante un’orgia, non vogliono tenerezza. La tenerezza chiede comprensione, la dolcezza vuole perdonare, l’amore chiede amore. Vogliono uno che si sappia prosciugare come loro, che sappia far male. Perché non ci sarà bisogno di comprensione, dolcezza o amore per bere a un’altra fonte e tornare a dissetarsi del fratello, musico, pirata. Non ci sarà bisogno di niente. Solo di una festa in maschera.

Questo Enrico non lo aveva capito. Per lui, era solo una troia. La troia di un re. Il fantasma di un re. Perché quando un re ama una troia e la troia muore, il fantasma di quell’amore resta. Non basta la dignità a scacciare i fantasmi. Non basta sapere che la sete di chi sa dissetare prosciugandosi è inesauribile. Che chi non nasce vichingo non lo diventa neppure se sposa Freya.

Ogni addio genera un fantasma e quel fantasma ripete, ogni notte, con la testa sotto il braccio, E’ inutile cercare quello che non esiste. E’ inutile, Anna, cercare un vichingo. E’ inutile, Enrico, cercare una sposa. Si trovano solo fantasmi e, in questa storia, i fantasmi si dissetano prosciugando.

I diosperi non sono lontani dai gelsomini

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
14/06/2020

L’ultimo amore è un diospero che cade quando il gelo vince sull’incoscienza che regala il frutto più dolce in quei giorni vicini alla notte, troppo vicini alla notte per credere ancora nella primavera

Il primo amore è un gelsomino che improvvisamente decide di fiorire quando la primavera allunga le sue dita sull’anima e il mattino è una luce che non conosce inverni

I diosperi e i gelsomini decidono il momento di fiorire e di dare frutti. Ciascun diospero, ciascun gelsomino lo decide. Chi prima, chi dopo. Ciascun uomo e ciascuna donna

Fioriscono e danno frutti quando pensano, con il pensiero lento delle cose animate, che il mondo potrebbe essere loro, che i colori dei loro frutti e i profumi dei loro fiori possono disegnare il mondo e il mondo può essere felice di essere disegnato così

Si sbagliano, si sbagliano sempre: il mondo, dopo qualche giorno, ritorna quello che era, fa a meno di loro e li dimentica

Così sono gli amori sbagliati, quelli che non ci possono permettere, quelli che finiscono in un aborto, fiori dimenticati, frutti calpestati

E si chiede perdono, non per non aver visto il disegno del mondo, non per aver pensato di cambiarlo, ma per non esserne stati capaci.

Per non essere riusciti con il profumo di un fiore e la dolcezza di un frutto e donare il sollievo di un istante, il desiderio di un giardino incantato e si biforcano i sentieri, senza dimenticare, ma solo calpestando quei fiori e quei frutti, con la rabbia sorda di un pellegrino che sa di avere sbagliato sentiero ma non riesce a smettere perché è più facile dimenticare un santo che ammettere di aver smarrito la strada.

Canzone di notte n. 5

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
13/06/2020

Guccini non ha ancora cantato Canzone di notte n. 5, si è fermato a 4, almeno credo.

Oggi, almeno credo, compie 80 anni e fa effetto per chi conosce le sue canzoni da 40, le ha ascoltate bevendo mezza lattina di birra con il suo migliore amico e giocando a scala 40. Erano adatte a quello che eravamo allora.

Sapevano di poesia e di rutti, rammentavano donne che scomparivano e amori che svanivano fra il fumo delle Pall Mall e il freddo del mattino quando il mattino era andare a scuola.

Fanno effetto questi ottant’anni perché Guccini ha cantato la visione del mondo di chi non sa che cosa lo aspetta, di chi pensa che ci sia qualcosa da credere, non ha ancora capito che si pensa di poter credere nel futuro solo perché non lo si conosce.

Oggi ho caricato Guccini sul mio stereo. Non so da quando non tiravo fuori dalla polvere quei dischi graffiati di vinile, comprati con i soldi della nonna, rubati al denaro che mi serviva per le sigarette.

Ho ritrovato quella voce potente e bassa, sgraziata, adatta al vaffanculo piuttosto che a Prevert.

Dio non è risorto, mi sono detto spengendo lo stereo e rimettendo a posto Due anni dopo.

Convinto che lo abbia pensato anche lui, nel suo compleanno, perché per uno che ha scritto Noi non ci saremo la cosa più triste è esserci ancora.

La lettera scarlatta

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
30/05/2020

La signora dalle scarpe gialle ha trovato una lettera scarlatta in fondo al suo cuore.

Facile ludibrio bigotto.

Lontano dalla verità che è altrettanto bigotta ma meno banale del verosimile.

La signora dalle scarpe gialle sa che il verosimile, non la verità, assomiglia all’edera.

Cresce, si arrampica, abbraccia fino a soffocare.

Non c’è amore nell’abbraccio dell’edera.

Non c’è amore nella crudeltà banale delle presunzioni.

La signora dalle scarpe gialle lo sa perfettamente e stringe i propri cerotti per camminare come se non provasse dolore.

Sa che nessun albero si può liberare dall’edera senza la compassione di un giardiniere.

Non è facile essere i giardinieri di se stessi e gli alberi, in fondo, amano l’edera che li soffoca rivestendoli di una parvenza di foglie, vogliono morire dentro quelle foglie che li rendono belli e li fanno soffrire.

E’ la storia della lettera scarlatta, anche se forse Nathaniel Hawthorne la vedeva diversamente, con il suo romanticismo un po’ gotico e provinciale, il romanticismo di un doganiere.

Geroglifici e scarpe gialle

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
26/05/2020

 

Erano parole le scarpe gialle.

Parole che stavano in un bagagliaio.

Ben nascoste.

Più false di una moneta d’argento nella bocca di un poeta ebreo.

Dal loro nascondiglio, permettevano ad altre parole di sgorgare. Parole senza tacchi. Parole innocenti. Parole che parlavano di giardini dai sentieri che si biforcano e di biblioteche senza fine, dai corridoio appena illuminati dalla luce fredda delle miniature.

Ma le scarpe gialle non possono restare nascoste a lungo.

Le scarpe gialle hanno bisogno di tornare ai piedi di chi le sa indossare e la regina delle scarpe gialle le ha messe di nuovo. Non ha neppure aspettato che le sue ferite rimarginassero. Ha cercato il dolore. Suo, di altri. Non importa.

Sono troppo belle le scarpe gialle per lasciarle dentro un bagagliaio e la regina ha ripreso il suo cammino, stretto i cerotti intorno alle dita, ingoiato il dolore e indossato il sorriso con cui Elena osservava Paride e rammentava Menalao.

Ora che le scarpe gialle sono tornate al loro posto, anche le parole sono tornate geroglifici.

Parole scritte per non essere lette. Ma non per essere dimenticate, Come poesie cucite nel cappotto di un poeta ebreo in una fredda anticamera di morte apparecchiata dal montanaro del Cremlino.

Nessun perdono può essere dimenticanza.

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