Somiglia a un lontano cugino di mio padre.
Rosso come un lupo fulvo.
Quel rosso di capelli che si accompagna a una pelle arrossata.
Che suggerisce la prontezza al vino e alla caccia.
In un mondo nel quale i poderi erano ancora isole nell’arcipelago delle invasioni barbariche.
Lezione.
Ragionevolmente complicata.
Il presidente della repubblica nelle mutazioni indotte alla forma di governo dalla sentenza che ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale.
Discorsi un tantino dogmatici e potenzialmente noiosi.
Lo vedo.
In terza fila.
Distratto.
Stanco.
La testa che penzola.
Cambia posizione.
Si alza.
Lo guardo interrogativo.
Dice, uscendo: Se non prendo un caffè cado per terra…
Senza capire che sta dicendo che io (il suo professore con cui non ha ancora superato l’esame) addormenterei un toro durante una corrida.
Sono mesi che le mie dita hanno lasciato queste scie, avvolte in un’ombra fredda e densa che spella i miei sentimenti, annulla le mie parole prima che si formino, concentra le forze in belle immagini di birra e tabacco biondo firmate Hermes.
Mesi di freddo e delusione fredda come vino di acciaio.
In questa notte, appare Luigi con tutta la irreparabile forza della sua morte e degli anni trascorsi dalle ultime parole che abbiamo scambiato.
Luigi era un uomo che aveva saputo lasciare tutto e da questo molto imparare l’arte del riciclaggio.
Sapeva trovare una lavatrice in un bosco, smontarla e ricavarne mie utensili più una ciotola per l’insalata che ancora oggi uso.
Sapeva scavare nella sua mente sino a masticare un ricordo e raccontarlo con grazia, anche se era fatto di fame e paura, della fame e della paura che avevano attraversato come una oscura tempesta gli Appennini della sua infanzia.
Un paio di scarpe nelle sue mani non erano mai abbastanza rotte per non poter camminare di nuovo e quando non potevano più camminare diventavano un utile d’altro che sempre stupiva e commuoveva.
Così di tutte quelle parole, delle tante giornate passate alla corte roca di quell’accento parmense che se chiudo gli occhi sento fra le dita, restano una ciotola di insalata e un paio di scarponi rincollati.
E il sorriso di suo figlio, quel filo di bava che lui asciugava come se fosse normale, sorridendo a sua volta di una nascita che sapeva di miracolo ma che non aveva mai imparato a camminare.
Perché di tutto e prima di tutto aveva imparato a riciclare anime.
Ci si chiede da ieri sera, chi vince quando a vincere è l’astensionismo.
Molti dicono che Renzi ha perso.
Molti non perdono occasione per cercare di sostenere che Renzi stia perdendo.
In questo caso, avrebbe perso perché l’Emilia Romagna, regione da sempre rossa come poche altre, ha disertato le urne come mai aveva fatto.
Ad avere memoria, si potrebbe osservare che chi ha perso, chi ha davvero perso in Emilia, è stato chi ha consegnato Bologna a Guazzaloca o Parma ai 5 stelle.
Ma sarebbe scortese: non si dice mai a una donna che porta male i suoi anni.
La verità è che l’astensionismo, lo insegnano le elezioni europee, è un dato costante delle democrazie mature, in cui è fallace il mito kelseniano della democrazia maggioritaria, di una rappresentanza che è democratica perché fondata sulla schiavitù del voto.
Oggi, non si governa con il voto. Si governa con la fiducia, che è molto più intangibile e molto meno distante di un popolo sovrano per pochi istanti allo scadere della legislatura.
Votano in pochi: coloro che sanno di godere del favore del principe e coloro che vogliono destabilizzare il sistema.
Gli altri, la maggioranza silente che sta con il principe, non vota, guarda le urne e si muove dal proprio salotto solo quando pensa che il proprio principe rischi di perdere il consenso della maggioranza.
E’ un modello che suscita interrogativi, ma che non può essere discusso sbrigativamente.
Renzi lo sta interpretando senza subirlo: non cerca il consenso di cooperative rosse che non esistono più, o di un socialcomunismo libertario che ha già subito tre operazioni alla prostata. Cerca la fiducia degli astenuti, una fiducia che può non essere ostentata in elezioni dal risultato scontato ma che non è mancata quando il risultato era molto più combattuto.
Sono tempi di post democrazia e continuare a pensare l’Italia nel prisma del 1946 non aiuta nessuno.
Mai, in tanti e tanti anni, ho compreso perché più di tutto del mare amo la scia che lascio dietro di sé come ferita d’aratro.
Perché del vivere amo il rammentare, il quando si era ragazzi di chi bimbo non è mai voluto nè riuscito essere.
Perché l’attimo che vivo ha senso solo se si trasforma in parole e memoria.
E tutto questo nonostante sia distratto e portato a dimenticare.
Ma forse è proprio dimenticare la cosa che più amo e che mi riesce meglio.
È questo l’alba. Il momento in cui le cose perdono l’incerto contorno della notte e tornano nette. In cui le voci non sono più sussurri e la luce rivela tagliando. Scolpisce le immagini.
E noi scriviamo come se fossimo altro che braccianti chiamati ad arare campi di battaglia.
La poesia inizia da qualche parte fra lo stomaco e il culo. Inizia con un sentimento di sconcerto e di stupore. Con un bisogno di fotografia che è china d’anima. Continua con un porco senso di inadeguatezza che non si ferma mai. Con la sensazione che qualcosa esce sempre dalle parole. Che il pennino non è mai abbastanza preciso.
Finisce nel mazzo di fiori che sta accanto alla strada. In quell’attimo_momento che tutto pareva chiaro, che le parole sembravano colorarsi di precisione, che finalmente la bocca sembrava camminare di pari passo con cuore. Ma era solo sangue d’orecchi_naso_asfalto.
Improvvisamente la raggiunge un raggio di sole e la verità non è un bacio.
Cena di avanzi.
Fra gli avanzi, prosecco sgasato per il padre e coca cola, sgasata, per le bimbe. Il padre trattiene, ma non troppo, una sonorità interiore. Bimba Piccola la riproduce con vigore degno di Ovo Sodo. Bimba Impertinente, no. Lei è già grande, siede come una signora e mantiene il tono cortese di conversazione che ha una signora astemia mentre partecipa a un aperitivo di alcolisti. Finalmente, ha un sussulto, appena percettibile: la coca cola ha fatto effetto anche su di lei. Arrossisce. Il padre osserva che il suo non è stato nulla e che può fare molto di meglio. Lei lo guarda interrogativa. Il padre replica Bimba Piccola che ride tutta contenta. Bimba Impertinente chiede come si ottengono questi risultati, il padre e Bimba Piccola spiegano la tecnica respiratoria necessaria a questo fine. Bimba Impertinente prova. Il primo tentativo fallisce. Il secondo è un successo.
Ride, Bimba Impertinente. Ride contenta. Ride libera. Ride, come raramente il padre l’ha vista ridere. E pensa, il padre, fra sé e sé: si è lasciata andare, è felice perché è riuscita a lasciarsi andare e l’immagine che ha in mente è una nobildonna vittoriana che assaggia la fettunta in una merenda di contadini.
L’osservazione corretta, però, è di Bimba Piccola: Il male trionfa sempre, dice con aria banale.
Omosessualitezze sono le raffinatezze che solo un omosessuale può praticare impunemente ed equivalgono a quelle barzellette talmente sconce che solo pochi superuomini possono raccontare senza arrossire.
Il prof. ___, appassionato da sempre di didattica e di studenti, occhialetti dorati da fine del secolo, sudato e profumato nello stesso tempo, in giacca, cravatta e canottiera, incontra uno dei suoi laureandi per le scale del Dipartimento. La giornata è afosa. Anche il laureando, che ha capito perfettamente con chi ha a che fare, è sudato, anche se pare molto meno profumato e indossa dei pantaloni corti sulle gambe muscolose e depilate.
Il professore lo guarda con apparente spirito paterno: Carissimo, il caldo ti ha segnato…
Meravigliosa omosessualitezza, che potrebbe stare sia per Sei sudato come un maiale che per Voglio annusare tutti i tuoi odori.
Penso mentre mi allontano senza sorridere affatto.