De Andrè ha rotto i coglioni
Povero De Andrè.
Passa le sue giornate a essere citato, ricordato, in una ammuina di parole che sembrano paolotti.
Uno guarda il nodo della cravatta di Fazio e pensa a De Andrè che canta, la bottiglia di whisky appoggiata accanto alla sedia, le MS blu che si consumano una di seguito all’altra, la voce che dice Vorrei essere altrove ma mi tocca cantare, perché so farlo e loro lo sanno.
Uno guarda la Dori Ghezzi e pensa al digraziato che ha passato venticinque anni a cantare Amico fragile beccandosi Un corpo e un’anima.
Fa un po’ rabbia, pena, schifo e malinconia questo girare di avvoltoi su De Andrè: le sue parole cantate da Pilù, la Pivano in carrozzella, i suoi libri aperti come signorine su una rivista per soli uomini.
Eppure fa pensare.
Ognuno consegna il proprio ricordo alla pietà degli altri.
Nessuno può decidere il destino della propria memoria.
E se finisce con un flauto spezzato, tanti ricordi e nemmeno un rimpianto, finisce anche che non te ne frega nulla dello speciale di Che tempo che fa a dieci anni dalla tua morte.