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Lando

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
13/02/2023

Ci sono immagini che feriscono.

Arrivano improvvisamente sul telefono: Guarda che cosa ho ritrovato.

Salaiole, 1985, direi, campo di noviziato del Firenze 26. Io sono al centro, l’unico con i jeans e gli scarponi.

Mi guardo e, soprattutto, mi guarda quel Gian Luca lì.

Gli chiedo – ma non mi risponde – se sono diventato qualcosa che può apprezzare e so che lui aspirava a lasciare il mondo migliore di come lo aveva trovato.

Osservo i volti che mi circondano. Molti li vedo ancora, altri li ho rivisti saltuariamente: qualche anno fa ai matrimoni, adesso, soprattutto, ai funerali.

Mi fisso su uno di noi: è accanto a me, con i suoi calzettoni grigi, ma non lo riconosco. Non lo metto a fuoco subito. Mi sovviene lentamente.

E’ Lando. Lui non lo vedo più. Lui è morto che non aveva trent’anni, forse nemmeno venticinque mentre faceva il dottorato di fisica a Trieste.

Incidente di moto. Soffriva di epilessia e il suo male lo ha colpito quando non ci poteva fare niente nessuno.

Lui, Lando, ha davvero lasciato il mondo migliore di come lo aveva trovato.

Ha lasciato noi tutti migliori di come eravamo.

Perché ognuno di noi, ogni tanto, pensa a lui e torna come era. Lo ritrova appeso a testa in giù alle travi della stanza in cui studiavamo sopra il Chiostro dei Voti. Che studiava i suoi teoremi. Oppure che partecipava alla gara dei gavettoni. O, ancora, che discuteva di Dio e beveva quel vino amaro con cui cercavamo di sembrare adulti.

Con tutta la sua intelligenza e il suo acume.

Ed è bello ricordarlo: gli eroi muoiono giovani e lasciano il mondo migliore di come lo hanno trovato perché il loro ricordo resta impavido di giovinezza.

 

La morte della quercia

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
24/10/2022

Guardo il suo povero corpo ricomposto nel letto.

E’ ancora caldo.

Inizio dai piedi: ha un paio di scarpe nuove. Non le indossava più. Gli hanno trovato le sue scarpe da ginnastica preferite. Metteva solo quelle e mi faceva sorridere. Erano le scarpe di Olivia Newton John quando insegnava aerobica.

Ha i jeans. Normali jeans. Credo di avergli sempre visto i jeans. E una giacca grigia, tutti i bottoni ben chiusi. Una camicia bianca, senza cravatta.

Il viso, finalmente, è disteso. Gli ultimi giorni sono stati terribili. Il tumore lo aveva gonfiato e lui non riuscita più a parlare. Non ha più nemmeno quel terribile rigonfiamento che straziava la sua fronte da oltre un anno.

Poche persone attorno a lui. I familiari più stretti. La moglie che lo ha accudito come si governa un animale morente. Con la stessa disperata pazienza. La madre che sembra scolpita nel legno di iroko e che piange lacrime di betulla. Ha un nome di bambina e sono di bambina quelle lacrime:

Che ne sarà di noi senza di lui, era lui quello forte?

E’ vero, lui era una quercia e le querce non muoiono. Le querce vengono tagliate.

Ma questo è la morte per ciascuno di noi: il momento in cui si viene tagliati e si perdono le radici.

Morire non è cadere, è un colpo d’ascia, di falce, una sega che lentamente incide e recide.

Lo guardo e so che lui ha lasciato il vuoto della quercia.

Della quercia che sta in mezzo a una radura.

Perché ognuno di noi è fissato a terra con pazienza di pianta ma pochi hanno la tenacia della quercia e quei pochi lasciano il mondo più solo.

Cassandra o del sopravvivere alle proprie profezie

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
19/10/2022

Da quella notte in cui due serpenti le hanno leccato gli occhi

Lei sa

Sa di dover vedere morire i suoi genitori

Sa che un fratello, il più bello dei suoi fratelli, sarà la sua e la loro rovina

Sa che lo dirà

Lo urlerà, perché lei lo vede

Ma sa anche che nessuno lo ascolterà

Che nessuno darà retta alle sue parole se non la fame di un mostro

Perché è questa la verità, avida fame di mostri

Da quella notte, lei sa che sarà stuprata

Che Aiace Talamonio, distruttore di dei, uccisore di innocenti, assassino affamato la stuprerà

Lo sa

E, vergine, aspetta quel momento

Senza altra vendetta che la consapevolezza della fine

Senza altra certezza che vivere può essere dolce anche se si sa che si è destinati alla più terribile delle sorti

Senza altra certezza che anche una maledizione può essere vissuta con dignità di vergine

E attende quella notte perché dopo tutti i giorni saranno inutili

inutile vivere dopo il compimento del proprio destino

inutile sopravvivere alle proprie profezie.

Preghiera del Patriarca Morente

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
12/08/2022

La casa del Patriarca sembra vuota mentre sta morendo.

Perfino il cane non si avvicina più a lui.

Insofferente, non riesce a stare nel letto, nudo, le sue vergogne esposte, non sopporta il peso delle lenzuola: sudari.

Nudo sono nato, nudo voglio morire ma non vorrei essere nato, ripete.

La moglie lo guarda, lo lava, lo accudisce, gli massaggia i piedi.

Dal naso scende un filo nero: sangue, pus e tumore.

Non c’è nessuna speranza nello sguardo dei figli che lo accarezza.

Urla: Sarà come Dio vorrà.

Grida: Banalità! Era solo una banalità.

Vorrebbe un caffè, un buon caffè, un caffè di Voltaire.

Dio tace, silenzioso, e lui sussurra una preghiera:

Padre nostro, come puoi essere padre di tutti? come puoi essere padre dei buoni e dei malvagi, come puoi condannare gli uomini a essere fratelli, senza premiare il giusto e punire il malvagio?

Che sei nei cieli, tu sei nei cieli, lontano dagli uomini, e niente è più crudele per un figlio della distanza dal padre.

Sia santificato il tuo nome, il tuo nome non è santo, lo diventa, sono gli uomini che ti santificano, tu sei il tuo nome e il tuo nome è invano senza le loro preghiere che lo pronunciano.

Venga il tuo regno, il tuo regno non c’è. E’ una promessa. Un miraggio.

Sia fatta la tua volontà, la tua volontà è il vento che trascina le foglie, il mare che annega, la pioggia che affoga ed è questo che vuoi per noi, che siamo come foglie, pesci o grano.

Come in cielo così in terra, neppure in cielo c’è il tuo regno. Neppure lì hai voluto governare, come un re buono, che si prende cura dei suoi sudditi, che amministra la giustizia, che separa il bene dal male e insegna a ciascuno quello che deve sapere per capirti.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano, insegnaci a vivere di pane. Fai che la nostra fame sia saziata tutti i giorni. Fai che la nostra sia fame di pane, solo di pane. Fai che non desideriamo mai altro se non il più umile degli alimenti e che non desideriamo altro desiderio che non sia cibo.

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, tu sei esattamente come noi. Esigi e riscuoti esattamente come noi. Non sei diverso da noi e ciascuno di noi è condannato a vivere soffocato dai debiti.

Non ci indurre in tentazione, sei tu che ci hai creato fragili. Affamati non di solo pane. Debitori di tutto e creditori di tutto. Ma noi dobbiamo evitare le tentazioni. Dobbiamo restare legati al nostro aratro. Contadini di sangue.

Ma liberaci dal male, e questa è davvero l’unica cosa che ti si può chiedere: liberaci dal male di vivere e non ci fare più nascere.

Lo guardo mentre dice il rosario.

Lo trasformo dentro di me in una preghiera blasfema.

La preghiera di un dio sconfitto e dolce che scopre di avere sbagliato tutto, di avere creato un essere che poteva solo peccare, di averlo condannato a vivere e diventare cattivo e lo scopre dopo tanto tempo.

Lo scopre e decide che può fare una cosa sola per quell’essere maledetto: morire anche lui.

Lo guardo mentre muore, il mio amico, sto accanto a lui.

Lo guardo ma non lo riesco a consolare perché il suo sudario, la sua nudità, il suo odore, le sue mani sempre più fredde, il suo muco canceroso, mi raccontano di questo dio dolce e sconfitto che sa, anche lui, di poterlo solo guardare morire.

Senza neppure la pace di una lancia di centurione a liberare l’anima dal dolore di vivere.

Tristi compleanni

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/05/2022

Mi piace ricordarti quando ancora camminavi e mangiavi a tavola con noi, come una persona normale, cui piaceva prendere due volte la pastasciutta e bere il vino.

Oggi, o domani, mi faresti gli auguri per il mio compleanno.

Li hai sempre fatti in anticipo e non li hai mai dimenticati. Neppure negli anni in cui siamo stati più distanti e malgrado quegli anni fossero i tuoi ultimi e la distanza lacerasse entrambi.

Mi manca già quella telefonata in cui avresti detto: Gian Luca, manca poco al tuo compleanno. Non molte altre cose perché non amavi parlare e la timidezza ti annodava le corde vocali quando si trattava di dire a tuo figlio che gli volevi bene.

Mi manca come mi mancano quei baci che davi protendendo le labbra sulla mia guancia.

Ogni volta che mi chiamavi per quegli auguri in anticipo non riuscivo a trattenere uno scongiuro: sono sempre stato molto più scaramantico e superstizioso di te.

Adesso so che non mi chiamerai, anche se guardo il telefono ogni volta che squilla sperando di trovare il tuo numero.

Lo so e non riesco a non trattenere le lacrime, come ogni volta che penso a te.

I compleanni sono anche gli auguri che non si ricevono. I tuoi, almeno, so che li avresti fatti.

Lenta agonia

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
19/05/2022

T. ha iniziato da più di un anno a soffrire.

Non ha fatto in tempo ad andare in pensione che la sua vita è passata dal lavoro a un tumore professionale.

Adesso entra ed esce dall’ospedale: setticemia, epatite, tutto quello che colpisce un fisico debilitato dalla chemioterapia.

Soffre come uno che ha sempre provato piacere ad alzarsi presto e iniziare la sua giornata pulendo il gabinetto di casa e spazzando il pavimento dell’officina, uno che avrebbe voluto dedicare il suo tempo a insegnare quello che aveva imparato perché ci sono tanti modi di avvitare una vite e lui prova piacere a spiegarli.

L’ho sempre osservato con l’ammirazione con cui si pensa ai capimastri del medioevo, persone che sapevano consolidare l’esperienza di generazioni nell’intelligenza con cui programmavano il proprio lavoro.

Ho anche sempre amato il suo modo di riflettere sulla vita, di non lasciare scorrere un secondo di vita senza che questo attimo diventasse saggezza, senza che lo masticasse con quelli mani di lavoro e lo ripulisse con la sua raffinata intelligenza, facendolo diventare puro pensiero.

Adesso che sta morendo, il suo pensiero si concentra sempre di più sul senso del male alla fine della vita e sul significato della vita se il suo termine è pura sofferenza.

Riesce a farlo senza amarezza, trovando pace in questa riflessione atea: non nel suo contenuto ma nell’azione del soffrire riflettendo.

Se mi avessero chiesto se volevo nascere, non so che cosa avrei risposto: la gioia del vivere non paga il dolore di morire.

Ma so che se mi chiedono se voglio vivere o morire, non tocca a me rispondere.
Questo penso in un’altra giornata che è trascorsa invano.

Dopo il naufragio

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
25/03/2022

Il Sole continua a imperversare, come una tempesta rovesciata

Nessuna notte

Nessuna pioggia

Solo questo Sole che costringe a chiudere gli occhi

Allontanare lo sguardo dalla pelle che cade a tratti

Nessuno riesce a dormire

Solo una lontana voce legge Coleridge.

Quello che resta (Un mese dopo)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
14/01/2022

E’ passato un esatto mese dalla morte di mio padre.

Un mese in cui il suo pensiero non mi ha lasciato spesso.

Anzi.

Forse sono stato più tempo con lui in questi giorni che in tutta la mia vita.

Ho pensato molto a quella mano che mi stringeva e che, all’improvviso, ha smesso di stringere.

Al perché di quell’abbandono.

Perché vivere è egoismo.

E’ imporre la nostra vita a chi ci ama.

Pretendere di essere amati.

Morire, allora, è l’istante in cui si decide di non essere più egoisti.

Che non si può più imporre la nostra vita.

Si accetta di morire perché ci si rende conto che siamo solo una mano che stringe.

Penso questo mentre lascio che il Sole, quel Sole che a dicembre continuava a morire, tocca di nuovo il mio tavolo.

Penso questo mentre penso che anche io troppe volte ho imposto la mia vita.

Perché ci vuole coraggio a smettere di stringere una mano.

Coraggio e stanchezza.

Lo storico alla fine dei tempi

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
03/01/2022

Il mestiere dello storico è ricordare il passato perché noi siamo fatti di passato e solo il passato consente di costruire il futuro.

Per uno storico non è vero che la storia insegna solo che non insegna niente. La storia insegna che gli uomini sono riusciti ad essere migliori. Ci sono sempre riusciti.

Ma anche lo storico arriva davanti alla fine dei tempi. Come un rabbino che aspetta in sinagoga il treno della deportazione.

Allora allo storico non resta che cancellare il passato. Bruciare la sinagoga. Lasciare che il futuro non abbia un passato alle sue spalle.

Questo si fa davanti alla fine dei tempi.

Si brucia il passato.

Futili respiri

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
15/12/2021

Non c’è motivo per nascere. Nessun motivo per imporre l’assurda complessità della vita a un gruppo di atomi e di molecole. Nessun motivo quando il faticoso insieme di esperienze ed emozioni che l’intelligenza della specie ha saputo specializzare in un individuo diventa un rifiuto catalogato dal codice dell’ambiente.

La vita è un imprevedibile calendario dell’avvento in cui l’ultima finestrella è una gita alle pompe funebri.

In ognuna di queste caselle, appare tutta la sua futilità. La futilità del respiro, del cibo, del sonno, dell’orgasmo.

Tutto è futile perché non vi è niente che non sia univocamente predestinato alla morte, a quell’esito che cerchiamo in ogni istante di dimenticare. Le due leggi fondamentali con cui l’ironia di un Dio immaginato da Schopenhauer ha programmato la sua razza eletta perché ci vuole ironia per costringere a vivere dimenticando la morte.

E questo triste calendario dell’avvento ha ogni giorno la sua sorpresa, sempre diversa per farci fare un altro passo in questo continuo dimenticare che è il vivere degli uomini.

Un dimenticare che ha le sue pietose regole. Prima di ogni altra quella per cui ogni uomo può decidere fino a quando. Fino a quando posso continuare a dimenticare il mio destino?

E con la vecchiaia si chiede sempre un giorno in più. Non so pensa che la vita non meriti di essere vissuta senza camminare, senza riuscire a mangiare con appetito, senza la gioia di riuscire ad ascoltare chi ci parla, senza la felicità di un sorso di vino o l’allegria di un ricordo vivo.

Sembra di poter vivere solo per respirare, pare che un sorso d’aria basti all’anima per dimenticare l’unico dono di Dio, quello che toglie tutti gli altri, che rende vano l’aver vissuto.

Per lui, però, non è stato così.

C’è stato un momento in cui ha deciso di smettere di dimenticare, un momento esatto e quel momento è stato fra le mie mani.

Perché ogni volta che, nella sua lunga agonia, in questi dieci giorni che sono passati da quando ha cominciato a smettere di respirare, gli prendevo la mano, lui la stringeva con forza. Con la forza delle mie figlie quando imparavano a camminare. Poi, un giorno, improvvisamente, quella mano ha perso forza. Mi ha abbandonato.

Ecco, non si vive dell’arida gioia di respirare, che era l’unica cosa rimasta alla stanchezza del suo corpo, si vive della gioia di una stretta di mano, di un contatto umano, della felicità di un figlio ritrovato.

In quell’ultimo e terribile istante in cui dopo averlo tante volte salutato, spesso sbattendo la porta come in una parabola che dispiace scrivere, ero tornato solo per dirgli che mai avrei desiderato un padre diverso da lui.

Quest’ultima gioia spero gli sia stata compagna in quel viaggio che per lui era certezza di risurrezione e che per me è descritto da un catalogo allegato al codice dell’ambiente.

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