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Felicita: prima il dovere

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
28/12/2020

Prima il dovere può essere considerato il filo rosso della tua vita.

Per molti anni, hai messo davanti a tutto il dovere.

Il dovere di essere quello che gli altri avevano bisogno che tu fossi, di indossare un sorriso perfetto, di essere all’altezza dei loro sogni.

Non quando ti ho incontrata. Quando ti ho vista per la prima volta avevi trovato la persona che aveva saputo guardare dentro di te. Ricordo sei parole, dette con la grazia con cui sfioravi l’essenza delle cose senza la volgarità di renderlo palese: Prima di conoscere G, mi sentivo invisibile.

Una notte di dieci anni fa, mentre ballavi come una ragazzina con G e quegli arruffati capelli bianchi che avresti sposato nove anni dopo e per meno di un anno, quando sapevi che il matrimonio non avrebbe distanziato il destino.

Un destino senza compassione e senza pietà ti ha condannata a morire, a tornare nel mondo di prima, quando il dovere veniva anzitutto.

E sei andata via, la mattina di Natale, dopo avere ordinato il pesce per la Vigilia, dopo avere provato a cenare con le persone che più amavi, dopo esserti lasciati cullare dal rumoroso trastullarsi di tua nipote, dopo essere riuscita a preparare una casa nuova in cui sapevi che non saresti vissuta a lungo, la gioia di lasciare il tuo ordine per quegli arruffati capelli bianchi che adesso sono restati soli perché dopo di te la solitudine è un antro ancora più profondo.

Sei andata via sussurrando che ti dispiaceva. Come se la morte, persino la morte del più subdolo dei tumori, fosse colpa tua. Eri abituata così: quando il dovere viene prima di tutto, ci si sente colpevoli anche per la pioggia.

Sei andata via come chi lascia una festa perché viene chiamato altrove da un dovere a cui non si può dire di no e non ha il tempo di salutare tutti. Come una ragazza di buona famiglia che viene chiamata dal padre prima di mezzanotte e si allontana dicendo al fidanzato deluso che avrebbe ancora voluto ballare con lei che le dispiace di quel padre un po’ tiranno .

Non eri una persona che sarebbe restata fino alla fine. Non si addiceva alla tua grazia sopravvivere. Solo questa consolazione mi viene in mente: che se sei andata via troppo presto, per te sarebbe stato orrendo restare dopo la fine, quando le bollicine hanno perso il perlage e gli alcolici sono impastati nella bocca di chi ha già bevuto troppo.

Perdonami per queste parole che ho durato fatica a trovare perché tu mi leggevi e ti piaceva leggermi, sicché ti ho voluto scrivere come se tu mi potessi ancora leggere nel luogo in cui sei volata.

Chi sa scrivere vede l’immagine dei sentimenti e conosce il suo nome mentre la evoca sulla tastiera. Si sa scrivere quando i sentimenti sono immagini. Non quando sono un ricordo che piange forte dentro di noi.

Uomini o pitbull?

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
09/09/2020

Il dibattito pubblico sui fatti di Colleferro, un ragazzo è stato picchiato a morte da altri ragazzi che non hanno avuto nessuna pietà di lui, si disperde in mille rivoli.

I punti principali, però, sono due: è omicidio preterintenzionale l’uccisione di una persona che chiede pietà da parte di persone che sanno benissimo di praticare delle discipline che consentono loro di uccidere?

E due persone che riescono a uccidere una persona a calci per ragioni apparentemente futili sono davvero persone o assomigliano piuttosto a cani resi folli da un addestramento disumano?

Non credo che sia omicidio preterintenzionale. Non c’è niente di preterintenzionale. E’ omicidio volontario aggravato dai futili motivi e dalla particolare crudeltà.

Non credo nemmeno che chi è capace di trasformare la testa di un ragazzo in una palla da football sia una persona.

Assomiglia a un pitbull, a un pitbull senza controllo.

Ma il codice penale prevede pene per i pitbull?

Il ritorno di Casanova

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
04/07/2020

Quello che Schnitzler non ha scritto, prima di morire nei suoi cinquantasei anni passati a spengere la candela della propria fantasia, è che Casanova si era ferocemente innamorato di quella ragazza conosciuta in una notte palladiana e rapita all’amore di un giovane ufficiale, talmente giovane da non sapere che le lame invecchiando diventano letali perché hanno conosciuto troppe volte la morte per non sapere che è vicina, che il suo alito marcio di denti cariati soffia più forte di un pianto neonato.

Se ne era ferocemente innamorato come si può innamorare solo un vecchio che conosce i segreti della scherma, che sa duellare e ascoltare l’eleganza barocca della musica, ma che soprattutto ha passato la propria vita a indagare il significato dell’amore, scoprendo presto che non ha niente a che fare con il possesso di due gambe che si aprono e di due natiche divaricate o di una gola avida di sperma.

Ci era voluto tutto questo, tutte le colombine che Casanova aveva rapito e amato, posseduto e abbandonato, tutti i piombi che aveva indossato con pigrizia di forzato per scoprire il significato dell’amore nella penombra palladiana delle candele attorno a un gioco di carte.

L’amore è il dolore di uno che ama volendo essere il marito della donna che ama. Volendo che il suo viso sia lo sguardo dei propri figli.

Nè sesso, né conversazioni, ma desiderio di un viso che è lo sguardo dei propri figli.

Casanova lo capì in quella notte di penombra, carte e duelli e l’amò senza mestiere, con indulgenza e stanchezza, non ne cercò l’ammirazione, non ne provocò l’orgasmo che squassa i sensi e che trasforma le parole in terremoti. Le regalò la propria ingenua verginità e pensò per qualche infinito battito di ciglia che fosse abbastanza, che lei non avrebbe potuto non amare chi l’amava volendo che il suo viso fosse sguardo di figli.

Si sbagliava e lo capì Casanova nello sguardo di disgusto con cui lei lo fissò quando la luce le rivelò di avere fatto l’amore con un vecchio e non con un giovane ufficiale, non col giovane ufficiale che Casanova aveva provocato e ingannato, ucciso e disprezzato.

E fu un dolore assoluto, il dolore che trasforma l’amore in nostalgia, vigliaccheria e irrazionalità.

L’ intelligenza dell’impossibile è dolore di infarto.

Il dolore di un cuore che si spezza quando sa che è impossibile che il viso amato sia lo sguardo di un figlio voluto.

La dolcezza del ragno

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
04/07/2020

La dolcezza del ragno è la sua tela: schifosa carezza

il suo abbraccio, terribile sonno

il suo veleno, meravigliosa agonia

Tutto questo è amore.

La nausea che colpisce lo stomaco

la carezza di una tela più morbida della seta

l’abbraccio della ragnatela che lentamente si stringe e porta con sé un sonno sempre più profondo

il veleno che trasforma l’agonia in una sequenza di sogni dolcemente moribondi

Tutto questo è amore.

Amore che uccide abbracciando e colmando la morte di sogni immemori.

Il ragno ama le sue vittime e le sue vittime amano il ragno perché non c’è morte più dolce di quella che si trova nella sua tela.

Gli spettri di Itaca

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/06/2020

Le unghie si spezzano se le mani costruiscono qualcosa che non esiste, qualcosa che Penelope disfa mentre tu, il più inutile dei suoi corteggiatori, continui a cercare i suoi sogni e la sua pace.

Non puoi trovare la pace di una donna che ti guarda sognando un uomo in viaggio.

Non sei tu la sua pace, non sei tu i suoi sogni. Tu sei ciò che è casa quando la casa è vuota.

Lo sai, lo sai benissimo e sai anche che il tuo viaggio dovrebbe riprendere, non può essere fatto di parole che offendono l’intelligenza, di risposte che non hanno letto la sostanza del tuo cuore, che lo calpestano senza comprendere, senza che tu meriti di essere compreso.

Non ci sono lacrime negli occhi di Penelope quando Ulisse imbraccia il suo arco. C’è una sorda gioia che segue il percorso delle frecce che ti trafiggono. Tu la vedi quella sorda gioia. Ti trafigge prime delle frecce.

E resti in quella reggia perché il tuo cuore è diventato lo spettro di tutto quello che aveva sognato e indossa le sue catene sperando di non svegliare Penelope mentre dorme accanto al suo Ulisse, senza che tu sia mai stato veramente un suo pensiero.

La tela di Penelope

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
11/01/2020

Penelope è una reggia vuota del suo re

Sono quelle stanze occupate da mille persone

Penelope sa benissimo come si riconosce un re

Un re pone il suo onore nel meritare fiducia. Ha il coraggio di esserci quando si ha bisogno di lui

Un re marinaio sa condurre la sua nave verso il porto, sa che navigare è riportare tutti i marinai che hanno messo la loro vita nelle sue mani alle loro case e lui per ultimo

Ulisse sapeva navigare, aveva il coraggio delle colonne d’Ercole, il coraggio di andare oltre il confine del mare e, soprattutto, di tenere la rotta quando il mare ribolle di sirene che chiedono solo di dimenticare una direzione, abbandonare la bussola, lasciarsi trasportare dalle onde, scomparire

Ulisse sapeva come si tradisce, sapeva usare l’astuzia dell’attesa, trasformare l’intelligenza in un tranello e in un inganno, perché un re vince le guerre, conquista il bottino di sangue che è la schiavitù di chi si è lasciato ingannare, di chi ha voluto l’inganno pur di finire una guerra, la morte per non aspettare la vita che si consuma dentro un assedio

Penelope aspetta il suo re nelle stanze del castello, finisce i suoi occhi al telaio, tesse come se non ci fosse nessun assedio, come se la nave di Ulisse non si incrociasse nel deserto mediterraneo con i lutti di Enea, non naufragasse nella ricerca di acqua, non soccombesse alla sordità dei banchetti di Didone

Si prostituisce all’assenza perché chi occupa la reggia non è un re ma sa offrire lo spazio di una gioia nel vuoto incavo della sua vagina secca di sale e lontane tempeste. Ama quei pretendenti. Di ognuno ama qualcosa. Di tutti ama il destino: morire di freccia, per mano di Re, morire perché la gioia di una regina deve soccombere al ritorno del suo signore

Nemmeno Omero, però, ha scritto cosa hanno fatto Ulisse e Penelope dopo quella strage danzante, dopo quelle frecce che hanno trafitto il cuore di coloro che avevano amato Penelope, di coloro che Penelope non aveva mai amato e ai quali aveva prostituito il suo bisogno di essere sazia e sola, di essere regina e vedova di un niente che sbiadiva il ricordo della sua anima

Non lo ha scritto perché non c’era più niente da raccontare. Perché Ulisse non ha solo trafitto il cuore di chi era colpevole di non essere amato. Perché alla fine Ulisse non poteva restare a Itaca, Itaca non poteva contenere i mari che lui portava dentro

Ulisse non è tornato a Itaca per restarci, è tornato perché aveva bisogno di Penelope per completare il suo viaggio. Per partire verso un dove che non conosce né ritorni né approdi.

 

L’inverno degli uomini e l’ultima rosa dell’anno

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
01/01/2020

L’inverno degli uomini assomiglia a quello delle piante

Ci si spoglia progressivamente di ogni emozione e sentimento

Fino a restare nudi

Il quieto sole della notte e la gioia immobile delle stelle intraviste da un letto che non è più nemmeno ricordi o rimpianti

L’egoismo del sangue che continua a scorrere anche se non bastano le coperte per scaldare un cuore vuoto

Eppure solitarie rose spuntano nel roseto ormai spoglio

Solitarie e coraggiose perché le rose nascono per fiorire

Le rose

Non gli uomini

Non questo uomo che ho paura di ritrovare nella parte più profonda dei miei occhi.

Parole che sfuggono

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
15/12/2019

Parole che sfuggono dalla bocca

Briciole di pensieri e ricordi sdentati

Tempo perso cercarle ancora

Tempo perso raccogliere le tessere di un mosaico consunto

delle memorie che si diramano in ferite di fuoco liquido

Non c’era speranza quando c’era un futuro

Non c’è speranza quando l’unico futuro è l’attesa di dimenticare il passato.

Il futuro del passato

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
12/12/2019

Il futuro cambia.

Ogni minuto.

Lo sanno gli artistici aruspici e gli stanchi amanti.

Le scatole di tabacco e le lampadine colorate che osservano i sogni dei bambini.

La nostalgia del passato non è onesta. L’adolescenza è un’affresco spremuto da dolori inestimabili e brufoli nel suo infinito presente e un ricordo struggente quando è il passato di un uomo di mezz’età.

Non si rimpiange quell’insieme di amori sfuggenti e poesie lette con l’apparecchio in bocca.

Si rimpiange quello che allora era il futuro. Un’ombra dolce che rendeva conforto alla luce accecante e spaventosa del presente.

Il passato, il vero passato, non è quello che è accaduto. Quello resta. Non abbandona il presente. Lo continua a graffiare fino a che non è nebbia e, forse, dimenticanza.

È il futuro che non è stato e che non sarà mai. Quello è nostalgia senza ombra. Luce senza colore. Odio di sé.

La città in cui viviamo (3156)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
26/10/2019

Il treno soppresso

La città in cui viviamo è anche una ragazza di ventuno anni che si suicida sotto un treno.

Il traffico che si blocca a causa degli accertamenti della polizia giudiziaria. E neppure un trafiletto sul giornale del giorno dopo, che era il 15 ottobre 2019.

Nemmeno una riga che ricordi quell’istante di dolore estremo che solo alla fine dell’adolescenza si può provare.

Perché era il giorno della cittadinanza onoraria a Richard Gere. Del sindaco che gli regala una maglia della fiorentina. Di un libro grande e bianco firmato con la calligrafia nitida di un giorno felice.

E il ricordo di quell’angoscia è solo nelle parole del capotreno ai pendolari del 3156 soppresso.

Richard Gere avrebbe detto commuters.

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