Il miliardario ed il giornalista (Come un medico che dimentica la garza)
Chi scrive, ieri sera, ha messo a letto presto le figliuole, ha attrezzato il desco televisivo, armato di canottiera, mutande di ghinea, bretelle, birra e ms blu.
Come il ragioniere, prima dell’arrivo di Bongo e dello sfratto senza convalida dall’amata alcova.
Lo attendeva uno spettacolo ancora più importante del derby: lo scontro Travaglio / Berlusconi arbitrato da Santoro.
Berlusconi ha giganteggiato.
E’ riuscito ad essere il Berlusconi di Vauro.
E’ riuscito a dimostrare che ciò che piace agli italiani è esattamente il Berlusconi di Vauro: il sorriso da padrone delle ferriere, il bavero sguaiato del doppio petto, le maniglie dell’amore che tiravano le cuciture della giacca ad ogni piegamento, il nodo della cravatta dritto come un’erezione.
La caricatura di se stesso, la caricatura di un paese che ha bisogno di sentire Dante dalla voce di Benigni, la caricatura della politica che Einaudi non avrebbe immaginato neppure nella peggiore delle diarree da dopoguerra.
Non è stato, come sempre, importante quello che ha detto, anche perché non ha detto praticamente nulla.
E’ stato importante che fosse lì a dirlo.
Però ha avuto la ghigna di ricordare, pedantemente, le disavventure giudiziarie di Marco Travaglio, che sarebbe stato condannato una volta in sede penale per diffamazione, con sentenza non definitiva, ed altre nove volte, in sede civile, con sentenza definitiva, per lo stesso genere di illecito.
La difesa di Santoro è stata molto vigorosa: B. non avrebbe dovuto intervenire sui precedenti giudiziari di Travaglio, perché erano state convenute delle regole di ingaggio che escludevano questo tipo di osservazioni. Come se una persona di mondo si potesse fidare delle parole di un signore che da venti anni stipula accordi con gli italiani… O come se fosse corretto fissare delle regole di ingaggio per un confronto giornalistico in cui il giornalista chiede all’intervistato di non accusarlo, invece del contrario…
Di più, per Santoro, sarebbe normale che un giornalista sia accusato per diffamazione e sia condannato per questo reato… La stessa pretesa di Sallusti: la libertà di penna permette anche l’abuso della penna. L’iscrizione all’Albo vale come scriminante, alla stessa maniera dello status di parlamentare.
Non è così.
La libertà di penna è una libertà che dialoga con il rispetto dell’onore delle persone di cui scrive e questo dialogo è fissato da tempo nei limiti alla libertà di cronaca, noti come interesse pubblico alla rivelazione della notizia, verità o verosimiglianza della notizia, uso di una forma coerente con il contenuto di ciò che si rivela.
Se si oltrepassano questi limiti, non è normale: non è normale che il giornalista violi le regole della sua professione, come non è normale che il chirurgo uccida il paziente o l’avvocato dimentichi di iscrivere a ruolo una opposizione a decreto ingiuntivo.
E se si sbaglia, magari non si cambia professione, come sarebbe giusto, ma, sicuramente, ci si scusa dell’errore che si è commesso, non si dice che gli errori sono normali nella propria professione.
Non è normale che un chirurgo uccida un paziente o che un legale danneggi il proprio cliente. E non ci si giustifica dicendo: Sa nel mio mestiere, capita… Capita per forza… Non è una bella risposta né per i figli del paziente che è morto sotto i ferri, né per il cliente che va fallito a causa della mancata opposizione.
Ma nemmeno che un giornalista sia condannato, in sede civile o penale: poco importa, per non aver rispettato i limiti della propria professione.