La cosa 3
Una delle vocazioni più profonde del partito comunista italiano era il principio maggioritario: l’idea che la volontà della maggioranza correttamente espressa attraverso gli organi di partito e le procedure previste a questo scopo fosse indiscutibile.
Una impostazione ingenua, forse, ma nobilmente laica: nessuno può imporre la propria volontà agli altri e nello stesso tempo nessuno si può sottrarre alla volontà della maggioranza del partito al quale appartiene.
L’idea che questa tradizione abbia intrapreso un dialogo costruttivo diretto allo sviluppo di convergenze trascendenti con riferimento alle ideologie ma convergenti per quanto riguarda i valori – se si sono ben comprese le dichiarazioni di Zingaretti e Di Maio, criptiche come una risposta della sibilla cumana a un quesito sul compromesso storico – con il post movimento fa riflettere.
Riflettere, naturalmente, è un eufemismo.
Il post movimento fonda le proprie decisioni su una visione massimalista del principio maggioritario. I suoi organi indicono una consultazione: decidono quando si terrà e quale sarà il quesito su cui gli elettori dovranno esprimersi con un si o un no. A quel punto decide il voto di chi c’è c’è malgrado la formulazione del quesito influenzi non poco la risposta mentre la decisione sul tempo della consultazione influenza la partecipazione.
Si tratta di un plebiscito indistinto che rammenta il processo a Socrate piuttosto che l’assoluzione di Barabba.
E’ tutto qui il problema? Se questo fosse il problema, si potrebbe osservare che l’autonomia dei partiti politici organizzare diversamente la propria democrazia interna e che è nella logica della firma di governo parlamentare vedere soggetti ontologicamente diversi stringere alleanze che talvolta possono risultare particolarmente solide.
La questione riguarda il tipo di politiche che il non movimento può elaborare. Una logica referendaria di costruzione del consenso è nemica di politiche di lungo respiro che hanno bisogno di elite ben radicata nella loro legittimazione politica ed ideologica.
La Repubblica della ricostruzione post pandemica per ora non ha visto altro che slogan, provvedimenti normativi incomprensibili anche per gli addetti ai lavori e un diluvio di finanziamento a pioggia assolutamente insensibili al merito dei beneficiati.
È la naturale conseguenza di un sistema di costruzione del consenso che parte dal basso e l’alleanza fra un partito democratico mai corso orfano di ideologie e carisma e il non movimento degli scontenti incontentabili non è in grado di fare molto di più di quello che ha fatto sinora.
Tutto questo rammenta le discussioni fra D’Alema e Amato, Turco e Bertinotti intorno alla possibilità di costruire un soggetto dopo sinistra che potesse unificare la tradizione socialista che era stata appena spazzata via da una tempesta giudiziaria che andrebbe indagata con serenità di storici, i post comunisti in cerca di una identità come transgender a cui è stata sbagliata l’operazione e i vetero comunisti fermi al 1956 ma in realtà più nostalgici di un missino a Predappio.
L’unica cosa che so può imparare da quel periodo è che tradizioni diverse possono dialogare ma non confondersi. Il partito democratico però non può dialogare con un post movimento costretto a ricorrere gli scontenti incontentabili per non scomparire quando la rappresentanza del Parlamento sarà ridotta di un terzo di gioco elettorali assomiglieranno a una roulette per ipovedenti.