Lenta agonia
T. ha iniziato da più di un anno a soffrire.
Non ha fatto in tempo ad andare in pensione che la sua vita è passata dal lavoro a un tumore professionale.
Adesso entra ed esce dall’ospedale: setticemia, epatite, tutto quello che colpisce un fisico debilitato dalla chemioterapia.
Soffre come uno che ha sempre provato piacere ad alzarsi presto e iniziare la sua giornata pulendo il gabinetto di casa e spazzando il pavimento dell’officina, uno che avrebbe voluto dedicare il suo tempo a insegnare quello che aveva imparato perché ci sono tanti modi di avvitare una vite e lui prova piacere a spiegarli.
L’ho sempre osservato con l’ammirazione con cui si pensa ai capimastri del medioevo, persone che sapevano consolidare l’esperienza di generazioni nell’intelligenza con cui programmavano il proprio lavoro.
Ho anche sempre amato il suo modo di riflettere sulla vita, di non lasciare scorrere un secondo di vita senza che questo attimo diventasse saggezza, senza che lo masticasse con quelli mani di lavoro e lo ripulisse con la sua raffinata intelligenza, facendolo diventare puro pensiero.
Adesso che sta morendo, il suo pensiero si concentra sempre di più sul senso del male alla fine della vita e sul significato della vita se il suo termine è pura sofferenza.
Riesce a farlo senza amarezza, trovando pace in questa riflessione atea: non nel suo contenuto ma nell’azione del soffrire riflettendo.
Se mi avessero chiesto se volevo nascere, non so che cosa avrei risposto: la gioia del vivere non paga il dolore di morire.
Ma so che se mi chiedono se voglio vivere o morire, non tocca a me rispondere.