Lando
Ci sono immagini che feriscono.
Arrivano improvvisamente sul telefono: Guarda che cosa ho ritrovato.
Salaiole, 1985, direi, campo di noviziato del Firenze 26. Io sono al centro, l’unico con i jeans e gli scarponi.
Mi guardo e, soprattutto, mi guarda quel Gian Luca lì.
Gli chiedo – ma non mi risponde – se sono diventato qualcosa che può apprezzare e so che lui aspirava a lasciare il mondo migliore di come lo aveva trovato.
Osservo i volti che mi circondano. Molti li vedo ancora, altri li ho rivisti saltuariamente: qualche anno fa ai matrimoni, adesso, soprattutto, ai funerali.
Mi fisso su uno di noi: è accanto a me, con i suoi calzettoni grigi, ma non lo riconosco. Non lo metto a fuoco subito. Mi sovviene lentamente.
E’ Lando. Lui non lo vedo più. Lui è morto che non aveva trent’anni, forse nemmeno venticinque mentre faceva il dottorato di fisica a Trieste.
Incidente di moto. Soffriva di epilessia e il suo male lo ha colpito quando non ci poteva fare niente nessuno.
Lui, Lando, ha davvero lasciato il mondo migliore di come lo aveva trovato.
Ha lasciato noi tutti migliori di come eravamo.
Perché ognuno di noi, ogni tanto, pensa a lui e torna come era. Lo ritrova appeso a testa in giù alle travi della stanza in cui studiavamo sopra il Chiostro dei Voti. Che studiava i suoi teoremi. Oppure che partecipava alla gara dei gavettoni. O, ancora, che discuteva di Dio e beveva quel vino amaro con cui cercavamo di sembrare adulti.
Con tutta la sua intelligenza e il suo acume.
Ed è bello ricordarlo: gli eroi muoiono giovani e lasciano il mondo migliore di come lo hanno trovato perché il loro ricordo resta impavido di giovinezza.