Le mani di Omero
Omero, come Borges, non è nato cieco. Ha visto la luce diventare lento tramonto e la penombra farsi notte.
I suoi figli, gli eroi che amava ospitandoli nel proprio cuore, sono diventati ombre di memoria quando i suoi occhi hanno smesso di vederli.
Ma Omero ha scoperto il potere delle mani, ha ritrovato la memoria di un volto accarezzandone i contorni. Non ha scoperto quel volto. Lo conosceva, lo aveva visto. Lo ha ritrovato nella notte degli occhi cercandolo con le mani, seguendolo con le dita, studiandolo con i polpastrelli.
Come il padre che diventa cieco e scopre di poter ancora vedere il viso d’un figlio accarezzandone i capelli, con lo stesso entusiasmo. Dolcemente avido.
Omero non ha usato le dita per ritrovare i suoi eroi e i loro miti. Ha preferito le parole. Le sue parole sono lemmi di cieco che ricostruiscono idee e immagini.
Così è quando si abbandona lo sguardo, si rinuncia a vedere.
Ci si rifugia nelle dita per capire il senso delle cose che solo la notte può contemplare senza che lo sguardo gli sia strage.
Si tocca ciò che non si può vedere.
Che non si vuole più vedere.
Sperando che il tatto sia verità quando lo sguardo era inganno.