Futili respiri
Non c’è motivo per nascere. Nessun motivo per imporre l’assurda complessità della vita a un gruppo di atomi e di molecole. Nessun motivo quando il faticoso insieme di esperienze ed emozioni che l’intelligenza della specie ha saputo specializzare in un individuo diventa un rifiuto catalogato dal codice dell’ambiente.
La vita è un imprevedibile calendario dell’avvento in cui l’ultima finestrella è una gita alle pompe funebri.
In ognuna di queste caselle, appare tutta la sua futilità. La futilità del respiro, del cibo, del sonno, dell’orgasmo.
Tutto è futile perché non vi è niente che non sia univocamente predestinato alla morte, a quell’esito che cerchiamo in ogni istante di dimenticare. Le due leggi fondamentali con cui l’ironia di un Dio immaginato da Schopenhauer ha programmato la sua razza eletta perché ci vuole ironia per costringere a vivere dimenticando la morte.
E questo triste calendario dell’avvento ha ogni giorno la sua sorpresa, sempre diversa per farci fare un altro passo in questo continuo dimenticare che è il vivere degli uomini.
Un dimenticare che ha le sue pietose regole. Prima di ogni altra quella per cui ogni uomo può decidere fino a quando. Fino a quando posso continuare a dimenticare il mio destino?
E con la vecchiaia si chiede sempre un giorno in più. Non so pensa che la vita non meriti di essere vissuta senza camminare, senza riuscire a mangiare con appetito, senza la gioia di riuscire ad ascoltare chi ci parla, senza la felicità di un sorso di vino o l’allegria di un ricordo vivo.
Sembra di poter vivere solo per respirare, pare che un sorso d’aria basti all’anima per dimenticare l’unico dono di Dio, quello che toglie tutti gli altri, che rende vano l’aver vissuto.
Per lui, però, non è stato così.
C’è stato un momento in cui ha deciso di smettere di dimenticare, un momento esatto e quel momento è stato fra le mie mani.
Perché ogni volta che, nella sua lunga agonia, in questi dieci giorni che sono passati da quando ha cominciato a smettere di respirare, gli prendevo la mano, lui la stringeva con forza. Con la forza delle mie figlie quando imparavano a camminare. Poi, un giorno, improvvisamente, quella mano ha perso forza. Mi ha abbandonato.
Ecco, non si vive dell’arida gioia di respirare, che era l’unica cosa rimasta alla stanchezza del suo corpo, si vive della gioia di una stretta di mano, di un contatto umano, della felicità di un figlio ritrovato.
In quell’ultimo e terribile istante in cui dopo averlo tante volte salutato, spesso sbattendo la porta come in una parabola che dispiace scrivere, ero tornato solo per dirgli che mai avrei desiderato un padre diverso da lui.
Quest’ultima gioia spero gli sia stata compagna in quel viaggio che per lui era certezza di risurrezione e che per me è descritto da un catalogo allegato al codice dell’ambiente.