Rovistare sulla scrivania
Talvolta rovistare sulla scrivania è come accorgersi di essersi dimenticati i calzini usati per correre nelle scarpe che si sono lasciate nella borsa del mare due mesi fa.
Talvolta rovistare sulla scrivania è come accorgersi di essersi dimenticati i calzini usati per correre nelle scarpe che si sono lasciate nella borsa del mare due mesi fa.
Si è detto che lo Scaccabarozzi è un gaffeur inimitabile.
Mettete che una sera vi sia una cena.
Una cena importante, con le autorità.
Ma anche galante, con le signore inguainate negli abiti da sera e con i collari di oro bianco.
Una cena in cui si assaggia senza mangiare.
Si annusa senza bere, e così via.
Ecco in una occasione come questa, lo Scaccabarozzi mangia come un maiale e beve come un otre.
La fine può essere imbarazzante.
Allo Scaccabarozzi potrebbe presentarsi un allievo più giovane, ma nemmeno troppo.
Diciamo un allievo restato giovane malgrado gli anni.
Accanto all’allievo potrebbe esserci una signora che non è sua moglie e che è ancora più giovane.
Perché l’allievo ha appena lasciato la sua famiglia ed è andato a vivere con questa signora.
E allo Scaccabarozzi, che conosce benissimo tutta la storia, potrebbe venire in mente che quella signora è una amica di suo figlio.
E’ coetanea di suo figlio.
E mentre il vino pulsa nelle tempie del povero Scaccabarozzi, gli potrebbe anche capitare di dire alla giovane signora: "Senti, ma mi spieghi perché invece di andare con i ragazzi della tua età, hai deciso di rovinare una famiglia?"
Magari a voce troppo alta, in un interstizio di silenzio.
Appena stemperato dalla pietà dell’allievo: "Professore, La posso accompagnare a casa? Forse stasera ha fatto un pò tardi".
Chi è che questa mattina ha sciolto:
– la kapò da un paio di centinaia di libbre, con gambe ad X, culo quasi per terra, calzoni neri a pinocchietto, calzerotti tigrati, blusa celeste angiolone, che si tirava dietro una bambina d’un tre anni, alla quale ripeteva con slabbrato accento slavo: "Tu adesso dormire, cosa deve fare bambina? Dormire e mangiare. Questo deve fare bambina buona", facendomi ricordare che a me la strega di Hansel e Gretel ha sempre messo una gran paura;
– la ciclista che mi ha scampannellato con somma urgenza perché ero fermo sul marciapiede a cercare di ricordarmi il nome dell’architetto che ha disegnato un palazzo e a chiedermi se era stato lui a progettare anche il giardino all’italiana sfruttando l’ideologia dell’ortus conclusus o se era stato un altro, e mi ha dato di imbecille addormentato con un tuaccio che ha fatto accapponare le mie già timide pudenda?
Ma soprattutto chi è che ieri sera ha sciolto il fine intellettuale che diceva "io sono un vero appassionato di libri, un uomo libridinoso: quando entro in una libreria non riesco a non comprare almeno un tascabile. Eppoi mi piace scrivere, so scrivere benissimo. Pensa che tutti i libri che avrei voluto scrivere sono stati già scritti"?
Anche quel giorno cercò di passare come tutti gli altri.
Ma non ci riuscì.
Semplicemente, non ci riuscì.
E’ accanto alla sua mamma.
La culla balla nella danza delle sue gambe che cercano il cielo.
Una figlia.
Niente più che una figlia.
Poteva essere stata persa nella giungla.
Poteva essere stata inseguita da Shere Khan.
Potrebbe chiamarsi Maddy.
Non conosco fino a fondo il suo viso.
Anche se ho vissuto a lungo accanto a lei.
La vedo come un’ombra che congiunge il mio corpo al suolo.
Che mi segue.
Senza mai toccarmi.
“Sono andato a Pontedera – C’eravamo solo noi
Poi sono andato a Empoli – E’ bellino d’estate, dentro si sta male
Dopo siamo stati al Cuore Matto (chissà dov’è) – Ma anche lì non c’era un cane
Alle quattro del mattino, sono dovuto tornare a casa”
In questi esatti termini, il giovane studente seduto dietro di me, sul treno che ci porta a lezione, verso le 7,40 a.m.
Se fossi come erano i miei professori, non potrei davvero esimermi dallo stimolarlo durante la lezione, in modo da verificare il suo stato di attenzione, da fargli capire che in questo modo probabilmente non può farcela.
Difficile studiare in queste condizioni.
Ma non lo sono.
Non penso di dovermi occupare della sua vita e delle sue scelte.
Esattamente nella stessa misura in cui mi rifiuto di fare la morale agli studenti che non superano il mio esame.
Semplicemente non mi stupirò dei suoi occhi ben lessati mentre parlo.
E farò in modo di sorridergli mentre scendiamo dal treno.
E’ un blog.
Null’altro che un blog.
Sta qui su splinder.
Siamo vicini di blog.
Ci sono cascato per caso ed ho letto:
FAMILY DAY: un milione e mezzo di cittadini intelligenti, pieni di gioia e amanti della vita, sono scesi in piazza, per riaffermare e ricordare alla ‘stragrande minoranza che ci guida’, l’indelebile presenza del maltrattato ‘ordine naturale’!
Santo cielo, come si fanno a scrivere queste cose:
– chi ha contato il milione e mezzo di cittadini che hanno partecipato al family day?
– chi ha verificato che erano tutti "intelligenti, pieni di gioia ed [si: "ed" non "e"] amanti della vita?
– perché il governo è formato da una stragrande minoranza? Che cosa significa questo ossimoro?
– un ordine naturale che è indelebilmente presente non ha bisogno di essere ricordato, per definizione, anzi per dogma;
– come si può affermare che esiste un ordine naturale? Mi sembra Ferrara che dimostra al Prodi metereologo che non ci sono cambiamenti climatici perché lui non sente più caldo di prima;
– chi maltratta l’ordine naturale? Lutero? Leibniz? Kant? il pensiero debole e riprovevole che si scatena in questi tempi di apocalisse?
Vabbene, la libertà di pensiero è anche libertà di parola e la libertà di parola facilmente diventa parole in libertà, ma questi esagerano un pochino.
Non credo che il buon Dio si sia divertito al family day.
Non lo, ma non credo.
Credo fosse troppo occupato ad evitare che in piazza san Pietro i frati ricchioni toccassero il sedere ai bambini, nell’ignavia di un milione e mezzo di cittadini intelligenti, pieni di gioia ed amanti della vita.
E’ una città molto più bella di quello che può sembrare ad una macchina in fila alla stazione marittima.
Livorno è una città notturna.
La città in cui Luchino Visconti ha ambientato le notti bianche di Fyodor Dostoyevsky.
Ma non sembra questo.
E’ la città in cui se ti fermi dal giornalaio, la vigilia di Natale, e chiedi: "il corriere della sera e il sole 24 ore", quello ti guarda male, finché non aggiungi, finché non ti senti in dovere di aggiungere: "e mi dà anche liberazione ed il manifesto".
Allora, ti sorride, sgangherato, e dice "buon natale, compagno".
Livorno è una città in cui è impossibile invecchiare.
Fino a quarantanni, sei un "bimbo", poi diventi un "giovane", e solo quando sei davvero vecchio ti senti chiamare come "quello lì", "vello lì", direbbe un livornese.
Soprattutto, però, Livorno ha una luce meravigliosa.
E’ vicina a Marsiglia, la luce di Livorno, una luce letteraria, che sa di pittura.
La luce della tramontana di inverno.
Secca e pulita.
Si, Livorno è una città bianca, molto più vicina a Marsiglia che a Firenze.
Via dei Servi congiunge il Duomo a piazza SS. Annunziata.
È stata a lungo fiumiciattolo, credo fosse il Mugnone, ed alimentava il fossato che circondava la prima cerchia muraria.
Oggi è una strada che si affaccia sulla Cupola del Duomo, che attraverso di lei riesce a guardare Fiesole, e sulla meravigliosa razionalità dello Spedale degli Innocenti, dove la pietà educava gli orfani al bello prima di restituirli alla strada.
La Rotonda è a pochi passi dall’incrocio di via dei Servi con via Alfani.
Come dire: tre delle opere più significative del rinascimento e del suo architetto sono intorno a questa strada.
Che si apre da nord a sud e guarda la Rotonda ad est.
Via dei Servi si chiama così perché era la strada che percorrevano i Servi di Maria, monaci agostiniani, a lungo maltollerati dalla città, Firenze è sempre stata abbastanza allergica ai santi, quando tornavano a Monte Senario, nel loro eremo, sulla via che porta a Faenza.
Talvolta, al mattino presto, è ancora possibile vedere il saio nero di qualche monaco che si sposta fra la Basilica ed il Duomo.
Vi è in via dei Servi una certa poesia, fatta di case ottocentesche, ragionevolmente dignitose, di qualche esercizio storico, come quello in cui da oltre centocinquant’anni si fanno e si vendono spazzole e dove si può ancora trovare la crema da barba “sciolta”, ovvero da acquistare a peso.
Per motivi stravaganti, che non è facile indagare, forse per caso, via dei Servi è diventata la casa di Lazzaro. Lazzaro è un barbone che trascorre le sue giornate accucciato su una sedia a rotelle, dove il marciapiede si slarga per fare spazio al Provveditorato regionale per le opere pubbliche, con accanto, per terra, un cartoccio di vino o una birra da muratore. Sudicio di quello sporco che una strada ti incolla addosso, quando sei diventato una parte del marciapiede. Soprattutto, però, Lazzaro non è completamente fedele alla sua sedia a rotelle. La usa. Ci si muove. Ma spesso si alza. Per lavarsi, andare a comprare le sigarette, il vino, la birra, qualcosa da mangiare – penso, ma non l’ho mai visto mangiare. La sedia a rotelle di Lazzaro è una sorta di poltrona con le ruote. Un residuo di casa che si porta dietro, come altri si portano dietro coperte e scatoloni, valigie e zaini, carrelli della spesa e dell’aereoporto.
Lazzaro fa gente.
Intorno a lui ci sono sempre altri barboni e lui si alza, offre la seduta della sedia a rotelle, la presta a chi vuole andare a chiedere l’elemosina, quando non ne ha voglia. Credo che il canone sia mite ed in ogni caso ho visto almeno tre diversi barboni chiedere l’elemosina con la sedia a rotelle di Lazzaro.
Lazzaro ha un nemico: lo spazzino che ogni mattina, fra le sette e le otto, lava le strade. È un tipo lombrosiano, la barba malfatta, ispida, sul genere Gambadilegno, gli occhiali spessi, tenuti insieme con lo scotch, una ms in bocca. Lo spazzino ha una piccola autobotte: un ape travestito da autobotte. Dietro, c’è un rullo con una quarantina di metri di tubo di gomma, che finisce in una pompa a pressione. Lo spazzino impugna la pompa a pressione come se fosse un supereroe. Ferma sempre l’ape abbastanza lontano da Lazzaro e si avvicina circospetto. Se Lazzaro dorme, lo spazzino, quando arriva a cinque o sei metri, apre la pompa al massimo getto, lo schizza di acqua e lisoformio (quel lisoformio grezzo che ammorba i gabinetti dei treni) e gli urla “alzati, sudicio, che cammini”. Lazzaro si scuote il vino dalle palpebre, si alza, cerca di salvare le sue cose dall’acqua. In silenzio.
Un silenzio pieno di dignità.