Ulisse viaggia un mare che non esiste più, il mare di tutto ciò che ha vissuto da quando ha lasciato Itaca iniziando un viaggio verso l’inferno, l’inferno di una figlia d’altri chiesta come sacrificio per una dea falsa, l’inferno di una guerra nella sabbia tempestosa dei Dardanelli, l’inferno di un ritorno in Patria che non finiva mai, di una nostalgia affamata di emozioni.
Ulisse viaggia per tornare a casa perché una guerra non si dimentica facilmente, è compressione dell’anima, abitudine all’odio, al sapore di sangue su denti che vedono le vittime colpevoli d’ispirare la pietà della morte.
Ha vissuto il desiderio di tornare a casa come il solcometro di un sogno e la certezza che sarebbe svanito.
Ulisse che torna in Patria non è l’orgia delle frecce che uccidono come pioggia di fuochi e meteoriti. E’ il piacere di trovare un figlio, capire che questo figlio non sarebbe diventato re senza la tempesta di dardi scatenata dalla rabbia del padre. E’ anche il bisogno di tornare per mare perché un figlio di re diventa re quando il padre muore e la morte perfetta è quella di chi parte per oltrepassare le colonne di Ercole. Non per tornare da Circe o cercare il tempio di Ifigenia. Ma per dimenticare ogni nostalgia.
La nostalgia di Circe che ha ucciso Penelope e la nostalgia di Penelope che ha ucciso Circe.
Bimba Piccola quando è diventata donna si è accorta di avere fame di bellezza.
Una fame assoluta e terribile
che ha iniziato a divorare i suoi arcobaleni
Lei lo ha chiamato disturbo:
Siamo in due a mangiare. Il mio disturbo ed io…
Fino a che non ha trovato il coraggio della consapevolezza e l’ha chiamata dispercezione.
Una parola molto vicina a disperazione,
perché anche dispercepire è percepire.
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Ragazza impertinente oramai è grande.
Passa ogni tanto su queste pagine.
Le piace ritrovarsi negli occhi di suo padre quando la osservava crescere.
Al padre, invece, piace rendersi conto che, adesso, è lei che quando torna a casa la sera, lo trova a letto e sente il bisogno di dargli la buona notte.
Gli piace e lo trova commovente.
Via Giusti quando ho iniziato a studiare il diritto costituzionale prendendolo sul serio era un singolare ensemble di archetipi.
Paolo Barile aveva dato vita a una scuola che riuniva persone molto diverse.
Cheli non si vedeva quasi mai ma faceva sempre sentire il suo pensiero, con l’intelligenza della saggezza che sa di dover essere parca se vuole guidare uno stormo assai disordinato e inquieto.
De Siervo arrivava ogni mattina con un sorriso buono e la sua stanza era ordinata come se ci fosse sempre il Sole.
Caretti parcheggiava una cinquecento rossa arrampicandosi sulle altre macchine e la sua scrivania ribolliva di libri letti e da leggere.
Zaccaria faceva il presidente della Rai. Lo vedevo allo studio del prof. Barile quando era tempo di auguri. Glieli faceva sempre di persona. Con affetto. Con vero affetto romagnolo.
Grassi arrivava di corsa e si pagava sempre il telefono, anche se non lo usava mai. Aveva l’onestà del cattolico spaventato dalla facile disonestà di una fede abile a evadere sia dalla morte che dal sepolcro.
Merlini, che è morto ieri mattina, si vedeva poco. Lui era affascinante e dinoccolato. Le sue spiegazioni erano colte. Ragionamenti di storico oltre che di giurista. E appassionate. Pensieri di un uomo che leggeva la Costituzione come un documento politico prima che giuridico.
Ho imparato a conoscerlo in treno, accompagnandolo a Roma o trovandolo per caso sulla via di un qualche convegno.
Sempre mi ha trattato come un allievo del suo maestro, con spirito di fratello maggiore, e spesso mi ha donato una riflessione musicale, uno sguardo rapito nella bellezza, spesso demolendo le mie convinzioni, troppo ingenue e persino rozze.
Non abbiamo mai avuto molto in comune. Le sue idee politiche erano diversamente appassionate rispetto alle mie, avevano lo charme del cachemire sotto l’eskimo. Ma era questa la scuola del prof. Barile: persone diverse tenute insieme dal fascino del loro maestro.
E Merlini di Barile aveva carpito – più di ogni altro allievo – il fascino assoluto e amabile di un mondano ambasciatore fin de siecle.
Oggi non compi ottantasette anni.
Non ci sei arrivata e non ho avuto bisogno ieri sera di comprarti un regalo all’ultimo momento perché ti piacevano i regali e ti dispiaceva non riceverli.
Una delle tante cose in cui siamo uguali.
Ti avrei comprato un foulard.
Non perché ti piaceva, ma perché piaceva a me, quando ti toglievo il cappotto o la pelliccia sentire per un istante il tuo profumo su quel pezzo di seta.
Sono andati persi, come i tuoi gioielli. Rubati da badanti e da cattivi affetti.
Ti avrebbe fatto male e non avresti sorriso.
Bambina sfollata nelle campagne dove la nonna doveva andare a servizio da una contadina che la pagava con qualche fetta di pane perché il nonno era scomparso nei labirinti della seconda guerra mondiale.
Hai conosciuto il sapore della fame, hai sognato con quel dolore a riempire lo stomaco.
Lo hai portato dentro di te per sempre, anche quando la fame non c’era più da tanto tempo.
Perché la cioccolata degli sfollati ha un sapore tutto suo.
Un sapore che tatua l’anima.
E quei tatuaggi hanno accompagnato tutti i tuoi sorrisi.
I sorrisi di una bambina che non riusciva a guardare i fochi di San Giovanni senza ricordare i bengala dei bombardamenti che hanno distrutto la casa in cui eri nata.
Mi manchi e soprattutto mi addolora non essere mai stato capace di cancellare quei tatuaggi dalla tua anima.
Anche i figli, in fondo, sono doni e come tutti i regali possono essere una gioia o una delusione.
Ed io so di essere stato una delusione per te perché non ho mai sopportato di dover essere un regalo che cancellava dolori che non mi appartenevano, sanava ferite che non comprendevo.
So di essere stato questo: un regalo sbagliato e, purtroppo, l’ho sempre saputo.
San Giuseppe, fino a ieri, era svegliarsi con un biglietto, accanto alla colazione apparecchiata.
Una cosa del genere: Sei il papà migliore del mondo.
Ieri erano due adolescenti di fretta, che bevevano il loro caffè, prima di indossare le mascherine e correre a scuola.
Il vocabolario di greco sotto braccio.
Auguri, babbo.
Dicono con un piede sulla porta e un bacio distratto.
Per un attimo, mi intristisce.
Dura solo un attimo.
Perché è bello che siano cresciute.
E’ bello che io sia una parte e non la metà di tutto.
Il mestiere di padre è essere una frazione il cui divisore cresce in misura esponenziale.
Qualche giorno fa in una trasmissione tipicamente fiorentina di una radio tipicamente fiorentina, un professore dell’Università di Siena ha espresso delle opinioni particolarmente aggressive verso una parlamentare di Fratelli di Italia.
L’indignazione si è sparsa ovunque. Perfino le costituzionaliste hanno pubblicato un comunicato stampa per esprimere solidarietà all’On.le Meloni.
Oggi, l’emittente ha annunciato che il giornalista, Raffaele Palumbo, che aveva condotto la trasmissione ha rassegnato le proprie dimissioni.
Non è una buona notizia.
Il prof. Gozzini ha sicuramente sbagliato: si è espresso sulla persona formulando un giudizio umanamente pesante e non sulle idee della persona che meritano una severa critica.
Nessuno, però, ha avuto modo di osservare che se una persona studia per tutta la vita, finisce per amare chi ha studiato e se uno ama Bertold Brecht, il che può essere feticismo, ma in fondo lo è anche amare Dante, non lo può sentire citato a sproposito.
Non può non esprimere una severa indignazione nel confondere l’avvento al potere di Hitler e della sua corte dei miracoli con l’incarico e la fiducia parlamentare a Draghi.
Non è un’attenuante, perché resta il principio: una cosa è non essere d’accordo con delle idee politiche, un’altra cosa è l’offesa individuale, che lede la dignità personale.
Ma aiuta a comprendere e dispiace che nessuno abbia ricordato le infinite polemiche di Sgarbi, finite troppe volte dinanzi alla Corte costituzionale con la pretesa di sentir coprire dall’usbergo dell’art. 68, Cost. le più insolite offese ai più disparati personaggi.
Ciò che però disturba di più però sono le dimissioni di Palumbo.
Palumbo è stato vittima di una vera e propria campagna di odio perché ha consentito al suo ospite di esprimere le proprie opinioni e questo è molto più intollerabile della incontinenza di Gozzini.
La Meloni incarna un movimento politico che aggrega la disperazione radicalizzata.
Questo spaventa e questo deve essere denunciato, molto più di un non più giovane professore universitario di sinistra che preso dallo sdegno per una citazione obiettivamente ruffiana e soggettivamente infelice si è espresso in termini incontinenti.
Credo che la solidarietà per Palumbo sia un dovere, non solo di tutti gli ascoltatori di Controradio, ma di tutti coloro che hanno a cuore la libertà di manifestazione del pensiero.
Alberto Genovese da tempo gode di un fragore mediatico che non aveva mai ottenuto con le sue iniziative imprenditoriali.
Un fragore che assomiglia a una damnatio memoriae. Non c’è settimana che i quotidiani non aggiungano tasselli alla cronaca delle sue feste eleganti con l’allegro entusiasmo di un voyeur in un parcheggio affollato.
La storia è triste e fa anche un po’ romanzo di appendice. Un giovane imprenditore di successo raggiunge molto più successo di quello che avrebbe mai sperato. Si ritrova a vivere di rendita. Inganna il suo tempo con feste. Acquista un appartamento molto prestigioso. Schiamazza e disturba il sonno di un famoso ballerino. Alle sue feste c’è tutta la Milano che conta e che abusa di droghe generosamente offerte dal padrone di casa. Ci sono anche delle ragazze che gli si concedono più o meno volontariamente, più o meno aiutate dalle sostanze con cui lui allieva la noia di vivere.
La storia ha tratti grotteschi: il ballerino che non dorme e chiama la polizia che non riesce a fare niente. Il guardiaspalle che diventa guardiano di amplessi, come si narra accadesse alle notti del povero Giangastone Medici, tutt’altro che attratto dalla legittima consorte. Il luogo dei festini che si chiama Terrazza Sentimento, come se le parole non diventassero sarcasmo quando sbagliano vocabolario.
Se fosse un romanzo della Serao, Genovese si pentirebbe e dedicherebbe la sua vita a fare del bene, magari aiutando gli anziani genitori e un fratello sfortunato.
Genovese al contrario si difende con una tesi piuttosto complicata da sostenere: sarebbe tutta colpa della droga di cui era diventato schiavo a causa dello stress.
Sino a qui, la parabola di un imprenditore che è riuscito a devastare la sua reputazione come pochi altri e che viene ricordato dalle cronache dei giornali con una attenzione maligna: che fine ha fatto l’assessore della lotta contro le mosche che ha fatto scappare l’ex compagna di liceo nuda dopo aver cercato di coinvolgerla in un gioco sessuale estremo? Perché anche lui non è stato trattenuto nelle pagine di cronaca con la stessa intensità?
Un mistero che forse potrebbe essere risolto leggendo i campanelli del condominio in cui è collocata Terrazza Sentimento.
C’è però una cosa che disturba di più di Genovese e della sua damnatio memoriae.
Nessuno parla della corte di Genovese. Perché a quelle feste Genovese non era solo. Perché quei vassoi di polverine non li offriva solo a se stesso. Perché ci sono montagne di persone felici di essere invitate a una festa elegante ma che poi scompaiono quando ci si rende conto che quella festa era elegante ma tutt’altro che di buon gusto.
Sono questi ospiti stolidi, lo sfondo della Terrazza Sentimento, la cosa che davvero disturba perché Genovese – forse – è stato un criminale, ma loro sono stati i suoi complici.
Non è il male che fa paura. E’ la solidarietà con il male espressa dalle persone perbene.