Questo mercoledì delle ceneri è un piccione morto per strada
Caduto, senza un movimento, come un sasso
Le ali racchiuse e le zampe rattrappite
Bestia senza vita, cosa senza pretesa d’anima
Bello morire così
Precipitati dall’ignoranza di vivere nell’indifferenza dell’asfalto.
Oggi, c’è aria di Pasqua nelle campane
La primavera si ricorda dell’inverno nella rugiada fredda come brina
Il Sole sa di nebbie
E io ricordo il profumo della giacca di camoscio di mio padre
Tanti anni fa
Vorrei sentirlo adesso quel profumo, un profumo che si sente solo avvicinandosi con labbra di bambino a una barba appena fatta.
Dimentico il dolore delle promesse sussurrate nella polvere di notte con passi di cieco
Parole leggere nella luce di fuochi fatui spezzano orribili silenzi scampati a verità consumate dal fumo e dal Martini
Un tacere ingannevole per un cretino che non voleva arrendersi alla grottesca cronaca dell’eterno ritorno
Ora non posso. Non puoi. Hai potuto
Niente è più leggero del male degli altri se è il prezzo della selvaggia gioia con cui si è deciso di sopravvivere in una vita di cartapesta senza annegare nel buio di una piscina
Troppe volte ho voluto dimenticare che le mie parole non valevano la memoria di chi riposava ascoltandole e, ora, ora che c’è un sole nebbioso, è il tempo giusto per morire a chi ha saputo imparare tutto ciò che l’amore non vale dal presente di chiodi per farfalle in cui si è trafitta.
Ragazza Impertinente è mancata da scuola per una settimana di vacanze.
Durante questa settimana, c’è stato un compito di greco e il padre ha scritto una lettera molto garbata alla professoressa chiedendo il permesso di portare la figlia a sciare.
La professoressa, con altrettanta cortesia, ha risposto che non vedeva controindicazioni e che Ragazza Impertinente avrebbe recuperato il compito al suo rientro.
Così è stato.
Con una precisazione importante che la versione del compito recuperato era molto più difficile della versione data alla classe.
Ragazza Impertinente si è lamentata con il padre.
Irragionevolmente.
Se si va in vacanza quando gli altri studiano, lo si fa perché si è più bravi degli altri e lo si deve dimostrare.
Un momento complesso nella vita di un genitore è quando una figlia rientra da scuola con la notizia che il padre è atteso a colloquio da un professore.
Il professore nel caso di specie è il professore di italiano.
Il padre si presenta nel giorno e nel luogo fissati travestendosi da persona seria.
Ovvero indossando un vestito e un panciotto perfettamente adatti al grigio degli anni cinquanta.
Il professore parla a lungo.
Difficile non distrarsi.
Poi arriva al dunque:
Sua figlia disegna mentre spiego
Il padre si scusa perché la figlia, in questo modo, ha tolto di rispetto al professore e alla materia che questo incarna.
Poi, però, aggiunge che anche lui insegna, anche se all’università e perfino da qualche anno in più del professore. Che una volta gli è capitato di vedere uno studente che scriveva con grande foga sul suo tablet. Che si era avvicinato per vedere come mai avesse tanto da scrivere e quando gli era arrivato dietro si era accorto che lo studente stava chattando su Facebook.
Vede – conclude il padre – non ho pensato che lo studente fosse maleducato. Ho pensato che non ero riuscito ad interessarlo e che ero stato molto ingenuo a pensare di avercela fatta.
La colpa se gli studenti non ti seguono è solo tua ed è davvero molto stupido pensare di ottenere l’attenzione con una nota o un urlo.
Questo, naturalmente, il padre lo ha solo pensato perché dirlo non era davvero proprio il caso.
Lo penso mentre la guardo scendere.
Lei ormai scia molto meglio di me.
Ha gambe più agili e uno stile perfetto.
Scodinzola sui muri delle piste più difficili con naturalezza e si fa aiutare dalla massima pendenza.
È brava.
Eppure quando viene con me si mette sempre dietro e mi segue.
Sono attimi di perfetta felicità questi.
Perché non mi segue per imparare.
Non più.
Ma perché ha paura che cada e vuole rialzarmi.
Non diventa meno penoso invecchiare. Diventa semplicemente bellissimo. Bello come l’infanzia o l’adolescenza se si ha il coraggio di capirlo.
Perché questo in fondo fa la differenza. Che da piccoli non so ha bisogno di capire che si vuole diventare grandi mentre da vecchi si deve capire che non si è più giovani.
Se lo si capisce, allora si vedono anche le cose che lo rendono bello.
Come una figlia che ti segue non più per imparare da te ma per aiutarti. Per poterti aiutare.
Il profumo del mare è più nero della notte.
Entra nelle case.
Dipinge le loro facciate.
Arrugginisce i visi di questa città.
Naufraga.
Come tutte le città veramente di mare.
Perché una cosa sola s’impara senza capire guardando l’orizzonte da un Lungomai.
Che il mare non è la terra.
Il mare non si può coltivare.
Non si può trasformare in un giardino.
Si può navigare, amare, insidiare, dipingere, derubare.
Ma non si coltiva il mare.
Resta se stesso.
È questa sensazione, forse, che galleggia nell’indolenza – ironica e dolce – delle città di mare.
L’amore delle farfalle non è amore.
Sanno di vivere un giorno.
Diventano romantiche quando si dimenticano di essere farfalle.
Amano, conoscono, si innamorano e quel giorno è sfavillante eternità.
Come vita di uomo, dalla cima di una quercia.
Il freddo del mare ha il collo alto delle uniformi blu marina, gli occhi vuoti dei calamari, la solitudine delle barche quando l’armatore è un motore che si accende durante il finesettimana.
Il mare si conosce solo d’inverno, lo dicono i vecchi marinai, quelli che non riescono a tornare a casa la sera se non hanno sentito il profumo dell’acqua mischiata al sale e alla nafta.
Ma non è così. Il mare è come le donne. Si conosce solo se si ha il coraggio di restarci accanto quando all’estate segue l’inverno. D’estate il mare non mantiene sempre quello che promette. L’inverno, spesso e invece, dà molto più di quello che si attendeva.
Un marinaio prende il mare quando sa di dover partire perché sa di saper tornare.
E questo lo fa solo chi ha abbastanza amore da non spengere la luce nell’inverno della passione. Quella passione che è rimasta dall’estate e che nessun freddo può far dimenticare.
Si trascinano come rottami
Parole mangiate dalla strada
Divise
Nascono uniche, diventano rottami nella solitudine che segue un punto interrogativo
La profonda solitudine di una nota alla fine dello spartito.