Il Sole continua a imperversare, come una tempesta rovesciata
Nessuna notte
Nessuna pioggia
Solo questo Sole che costringe a chiudere gli occhi
Allontanare lo sguardo dalla pelle che cade a tratti
Nessuno riesce a dormire
Solo una lontana voce legge Coleridge.
E’ passato un esatto mese dalla morte di mio padre.
Un mese in cui il suo pensiero non mi ha lasciato spesso.
Anzi.
Forse sono stato più tempo con lui in questi giorni che in tutta la mia vita.
Ho pensato molto a quella mano che mi stringeva e che, all’improvviso, ha smesso di stringere.
Al perché di quell’abbandono.
Perché vivere è egoismo.
E’ imporre la nostra vita a chi ci ama.
Pretendere di essere amati.
Morire, allora, è l’istante in cui si decide di non essere più egoisti.
Che non si può più imporre la nostra vita.
Si accetta di morire perché ci si rende conto che siamo solo una mano che stringe.
Penso questo mentre lascio che il Sole, quel Sole che a dicembre continuava a morire, tocca di nuovo il mio tavolo.
Penso questo mentre penso che anche io troppe volte ho imposto la mia vita.
Perché ci vuole coraggio a smettere di stringere una mano.
Fame di diabetico, il bisogno d’amore, sete di alcolizzato
Gangrena
Non amata imputridisce carne
L’animo si abitua al delirio
Fame_sete, allegre compagne di chi discende nel proprio inferno
Divorano la mente
Popolano la carne
Prevalgono come neve che assidera abbracciando senza la crudele pietà dei sogni
Ribellione è seppellire il proprio cuore.
Come sulla pescaia: il rifiuto della piena
Si aggancia alla speranza di non essere ancora e di nuovo travolto dalla corrente
La sua intera vita è quella speranza
La sua definitiva morte il precipitare di quei pochi metri
Eppure non è così
Non è così per chi osserva da lontano
Non è così perché la vera morte è vivere lottando contro la corrente della verità.
Il mestiere dello storico è ricordare il passato perché noi siamo fatti di passato e solo il passato consente di costruire il futuro.
Per uno storico non è vero che la storia insegna solo che non insegna niente. La storia insegna che gli uomini sono riusciti ad essere migliori. Ci sono sempre riusciti.
Ma anche lo storico arriva davanti alla fine dei tempi. Come un rabbino che aspetta in sinagoga il treno della deportazione.
Allora allo storico non resta che cancellare il passato. Bruciare la sinagoga. Lasciare che il futuro non abbia un passato alle sue spalle.
Questo si fa davanti alla fine dei tempi.
Si brucia il passato.
Non c’è motivo per nascere. Nessun motivo per imporre l’assurda complessità della vita a un gruppo di atomi e di molecole. Nessun motivo quando il faticoso insieme di esperienze ed emozioni che l’intelligenza della specie ha saputo specializzare in un individuo diventa un rifiuto catalogato dal codice dell’ambiente.
La vita è un imprevedibile calendario dell’avvento in cui l’ultima finestrella è una gita alle pompe funebri.
In ognuna di queste caselle, appare tutta la sua futilità. La futilità del respiro, del cibo, del sonno, dell’orgasmo.
Tutto è futile perché non vi è niente che non sia univocamente predestinato alla morte, a quell’esito che cerchiamo in ogni istante di dimenticare. Le due leggi fondamentali con cui l’ironia di un Dio immaginato da Schopenhauer ha programmato la sua razza eletta perché ci vuole ironia per costringere a vivere dimenticando la morte.
E questo triste calendario dell’avvento ha ogni giorno la sua sorpresa, sempre diversa per farci fare un altro passo in questo continuo dimenticare che è il vivere degli uomini.
Un dimenticare che ha le sue pietose regole. Prima di ogni altra quella per cui ogni uomo può decidere fino a quando. Fino a quando posso continuare a dimenticare il mio destino?
E con la vecchiaia si chiede sempre un giorno in più. Non so pensa che la vita non meriti di essere vissuta senza camminare, senza riuscire a mangiare con appetito, senza la gioia di riuscire ad ascoltare chi ci parla, senza la felicità di un sorso di vino o l’allegria di un ricordo vivo.
Sembra di poter vivere solo per respirare, pare che un sorso d’aria basti all’anima per dimenticare l’unico dono di Dio, quello che toglie tutti gli altri, che rende vano l’aver vissuto.
Per lui, però, non è stato così.
C’è stato un momento in cui ha deciso di smettere di dimenticare, un momento esatto e quel momento è stato fra le mie mani.
Perché ogni volta che, nella sua lunga agonia, in questi dieci giorni che sono passati da quando ha cominciato a smettere di respirare, gli prendevo la mano, lui la stringeva con forza. Con la forza delle mie figlie quando imparavano a camminare. Poi, un giorno, improvvisamente, quella mano ha perso forza. Mi ha abbandonato.
Ecco, non si vive dell’arida gioia di respirare, che era l’unica cosa rimasta alla stanchezza del suo corpo, si vive della gioia di una stretta di mano, di un contatto umano, della felicità di un figlio ritrovato.
In quell’ultimo e terribile istante in cui dopo averlo tante volte salutato, spesso sbattendo la porta come in una parabola che dispiace scrivere, ero tornato solo per dirgli che mai avrei desiderato un padre diverso da lui.
Quest’ultima gioia spero gli sia stata compagna in quel viaggio che per lui era certezza di risurrezione e che per me è descritto da un catalogo allegato al codice dell’ambiente.
Non c’è da dire niente negli ultimi istanti di vita di un uomo.
Gli si sussurra quello che vorremmo fosse il nostro saluto nella speranza che ci possa sentire.
Gli si racconta di una leggenda indiana secondo cui sono i figli che scelgono i loro genitori prima di nascere, scelgono da quale ventre uscire e quale soffio di vita li animerà.
Gli si dice che si ricorda quel momento, quel momento in cui lo abbiamo scelto come il miglior padre che si potesse mai avere.
Gli si dice tutto questo, sperando che ascolti, mentre le sue dita stringono ancora le nostre e ci ricordiamo di quando ci ha insegnato a camminare e lo abbiamo scelto, ancora una volta, come il miglior padre che si potesse avere; di quando ci ha accompagnato a scuola, il primo giorno, con il grembiule nero e la goletta bianca; di quando ci ha comprato tre bic extrafini per il primo esame al quale abbiamo preso il massimo dei voti; di tutte le passeggiate che abbiamo fatto perché a lui piaceva camminare e a me piaceva parlare con lui del futuro; del fatto che niente di quello che abbiamo costruito lo avremmo costruito se non avessimo avuto la sua impronta a guidare i passi sul sentiero.
Gli si dice che nessun errore è stato davvero un errore, che sappiamo che ci ha voluto bene in ogni istante della sua vita e che non abbiamo mai smesso di pensare che fra tutti i padri, quel giorno, in cui lo abbiamo scelto, abbiamo scelto davvero il migliore.
Senza piangere, senza piangere, senza piangere perché a lui non sarebbe piaciuto.
Moana Pozzi è un VHS sgranato dal ricordo manuale di un adolescente a cui non piaceva il calcio.
E’ stata bella, bella e troia, in un tempo in cui gli uomini potevano essere maiali restando gentiluomini e le donne a cui piaceva il sesso erano ancora puttane.
Ha fatto del suo essere porca un mestiere e ha saputo vivere quel tempo rivendicando il diritto di poter provare piacere nel fare cose che le altre donne potevano fare solo con mariti sovrappeso in letti stanchi di lenzuola che sapevano di sudore, calzini e canottiere Cagi anche d’inverno.
I suoi uomini sono stati giocattoli. Sex toys, non gigolò. C’è una soluzione di continuità fra questi due concetti: il gigolò è un uomo che sa dare piacere mantenendo la sua ars amatoria collegata allo spirito, che ha trovato una donna che gli chiede di essere amata anche se per finta, che gli chiede di essere accompagnata a cena e fatta sentire come ci si può sentire con un uomo che sa essere elegante prima di essere scopata da quello stesso uomo, che non indossa né calzini né canottiera, il toy boy è un uomo che dà il piacere che la donna gli viene chiesto da una donna che si domanda se la sua attrezzatura manterrà le promesse.
Tardelli, Craxi, gli altri uomini con cui si dice che sia stata – ma non lo si sa e non sarebbe da gentiluomini saperlo – hanno provato la terribile angoscia che si prova quando si incontra una donna come lei.
Il sesso fine a se stesso, il sesso che si consuma per piacere, il sesso senza altro che il sesso, il sesso che diventa competizione perché si sa di non essere soli fra quelle gambe, che quelle gambe sono come il cielo stellato: un multiverso che ospita mille uomini contemporaneamente anche se provengono da tempi profondamente diversi, è pura angoscia.
Lascia amarezza, solitudine e rabbia perché un uomo, se è un uomo come Craxi, o come Tardelli, un uomo che ha una vita oltre ciò che separa le gambe dal busto, pretende che la sua vita sia apprezzata insieme alle virtù amatorie, pretende che le sue capacità fisiche diventino una esperienza erotica unica perché la donna che sta amando è capace di sentirle insieme a tutto ciò che quell’uomo ha costruito con la sua vita.
Moana ha saputo separare il cazzo dalla storia individuale dei suoi amanti e non deve essere stato facile per loro sentirsi paragonati a ometti che erano solo giocattoli, ma giocattoli molto più perfetti per Moana di loro, perché a una donna come Moana piace essere portata a cena in un locale elegante, piace leggere un libro impegnato, discutere di musica e ricordare il tempo in cui suonava il clavicembalo ma dopo avere fatto tutto questo torna Moana e cerca il suo piacere.
Lo sa separare dalla sua intelligenza e questo per un uomo intelligente diventa un paragone insostenibile perché mette in dubbio tutto quello che ha saputo costruire, con l’intelligenza e la cultura e non con il pisello.
Moana racconta molto al mondo delle pari opportunità. Dice che non solo gli uomini possono essere maiali restando dei gentiluomini, come quando si ritrovavano nelle case chiuse e le case chiuse assomigliavano al Circolo Canottieri Savoia o allo Yacht Club Italiano perché il pianoforte era suonato da Satie, ma anche che le donne possono essere puttane restando delle signore.
Anche se forse il mondo delle pari inopportunità che ci piacerebbe costruire è un mondo in cui le donne rinunciano a essere puttane e gli uomini non vogliono essere il verro padrone del recinto delle maiale.
Un mondo in cui una donna non è un corpo che dà piacere ma un anima che riempie il corpo mentre riceve piacere da un’altra anima, così lontana finché non diventa così vicina da essere orgasmo, ma non l’orgasmo meccanico di un giocattolo, ma l’orgasmo pneumatico di due psiche che riempiono i corpi – e questo, forse, si potrebbe scrivere solo nel greco antico di quegli intellettuali che avevano rinunciato al genere delle pari opportunità per parlare di corpi e anime, di veneri celesti e veneri pandemie.
Vale la pena ricordare Moana, racconta bene lo spirito di quegli anni in cui l’amore è stato liberato dalla Democrazia Cristiana, ma solo se serve per capire che l’amore di Moana era una cosa terribile, per lei e per gli altri, che le donne come lei sono una maledizione per chi le incontra e per loro stesse che si incontrano ogni giorno e ogni istante.
Moana ha avuto la fortuna di morire giovane, di non conoscere il tempo in cui le donne diventano secche e si asciugano, di non vedere le proprie rughe nascoste da un trucco intelligente ma che rifioriscono come la ruggine che si può lavare ma torna sempre perché il ferro quando è ossidato non è più ferro.
Se fosse stata vecchia, forse, ci piace pensare così, avrebbe fatto sua la filosofia di queste righe: un boudoir non è solo un boudoir, è prima di tutto un talamo e quello che c’è nel boudoir sfiorisce nelle rughe che rifioriscono come la ruggine sotto il trucco sapiente della penombra, mentre ciò che si è costruito nel talamo trova in quelle stesse rughe il calore di una poesia di Yeats.
Ma questo è ottimismo perché – di solito – le donne come Moana non leggono Yeats, non sanno nemmeno chi è.
Pindaro ha sognato a lungo di volare.
Di staccare i piedi da terra e conoscere il cielo da vicino.
Perché chi ama il volo vuole vedere le stelle, avvicinarsi alla sostanza dei sogni, vivere dove si può toccare il Sole.
Pindaro si era innamorato del Sole, del suo calore, della dolcezza con cui scioglie la brina dopo una notte di Primavera.
Suo padre gli ha regalato la possibilità di avvicinarsi al Sole.
Come un padre che permette ai figli di realizzare i loro sogni.
Il Sole, però, è diverso da come Pindaro lo immaginava. Non scioglie la brina. Non scalda le ossa dopo una notte di mare, pioggia e vento.
E’ calore rovente che brucia le ali e che schianta Pindaro. Lo riporta a terra, ossa spezzate da un sogno.
La verità del Sole è che brucia chi vuole guardarlo negli occhi.
Ricordi quando – ogni notte – non riuscivi a dormire da sola e venivi nel nostro letto? Lo scaldavi con i tuoi sogni che attraversavano il cuscino per diventare la nostra felicità.
Il mattino era un bacio lieve come il ponente del mattino dopo una notte afosa per svegliarti mentre facevi finta di dormire.
Lo ricordi adesso che ti alzi con Spotify, che la tua camera è chiusa ogni sera, vai a letto dopo di noi senza passare dalla nostra camera, che ti incontro mentre ti prepari la colazione da sola ed io esco di casa sentendomi un ladro perché non ti ho svegliata né guardata mentre facevi finta di dormire?
Anche questo è un cambio di stagione: è arrivato il momento di riporre i vestiti dell’estate, non è più tempo di lino e si controlla che il tweed non sia tarmato, che i pantaloni di vigogna non scoppino per il troppo vino dell’estate.
Ti osservo con la tristezza con cui si guarda l’estate che svanisce, sperando in un’ultima giornata di Sole, cercando nella Tramontana il ricordo dello Scirocco.
Ti vedo e penso che anche questo è un cambio di stagione: doloroso come tutti i cambi di stagione, ma – mi dico – i frutti dell’Autunno sono più avari dei doni dell’Estate. Più avari ma molto più dolci.
E ti sorrido stringendo dentro di me il ricordo dei tuoi sogni quando mi arrivavano attraverso il cuscino e non riuscivo ad addormentarmi perché preferivo perdermi ad accarezzarti con gli occhi senza fare rumore.