C’è il liscio.
Qui la riforma costituzionale.
La fine del viaggio è quando si scende a terra, quando si lascia il disordine del pozzetto in cui si sono vissuti gli ultimi giorni.
La fine del viaggio è sempre panico e sgomento.
Il pozzetto è un universo rassicurante, un mondo di cui conosciamo tutto, ogni attrezzatura, ogni rumore, ogni ombra.
Un pulpito sull’abisso e un ascensore verso il sole.
Sa essere casa e ponte di comando, permette di leggere un libro, scarabocchiare un’osservazione sul libro di bordo, e, nello stesso tempo, consente di cazzare le borose in un groppo improvviso perché tutto è sempre dove deve essere, nell’esatto punto in cui, accecati dalla notte, il vento e la pioggia, si sa di trovarlo e lo si deve perché se non fosse così sarebbe un problema.
Il pozzetto finisce sulla banchina di un porto, l’ultimo argine che contiene il mondo prima che invada il mare.
Di là, in quella che chiamiamo casa e in quello che consideriamo il nostro mondo, aspetta il disordine e la confusione, l’affascinante complessità degli sguardi e la vita vissuta come un crudele passatempo per gentiluomini, purtroppo aperto all’iscrizione anche di chi gentiluomo non sarà mai.
L’intelligenza del particolare inutile, nel pozzetto, è capacità di prevedere l’improbabile e perciò virtù del comando.
Adesso torna ad essere pedanteria ed eccesso di analisi.
Il mal di terra non è dondolare perché il pagliolo non si muove sotto i piedi.
Il mal di terra è il senso di panico e angoscia che prende ogni volta che si lascia un mondo di cui si conosce ogni suono e riconosce tutte le vibrazioni per precipitare nell’imprevedibile, quotidiano abisso.
Tutte le volte che passo dalla corte dei conti osservo con stupore la solenne maestosità dell’usciere.
Le ali del suo mantello filtrano come persiane i tempi in cui questa toga non sapeva di sudpalpebre non bruciavano i demoni che quel sudore ha cercato di combattere.
C’è sonno in questo collegio del mattino, sonno e stanchezza.
Si sveglia appena, un sussulto lieve quando qualcuno dice che se il consiglio di ministri non ha ancora approvato uno schema di decreto legislativo non tenerne conto sarebbe un esercizio di inutile formalismo.
Sfilano in questo sono, ormai anziani, i giovani barbari che avevano sognato di fare nuova Bisanzio.
Anziani lupi ne reggono la barra delle difese, tutto hanno difeso e tutto continueranno a difendere.
Lupi che hanno nello sguardo il boato di tutte le morti che hanno divorato.
Il luogo è famoso più per il cacciucco che la cordialità.
La gestione è passata, con l’ignoranza, dal padre ai figli.
Eppure ci si viene volentieri. Un po’ perché ci vogliono anni prima di diventare clienti e avere diritto alla foto (con la candela) per Ognissanti, un po’ perché ci si mangia come dalla povera nonna (abbondanza di semplicità e carestia di tutto il resto).
Da soli può essere divertente. Si vede quello che succede e si odono le parole altrimenti destinate a rimanere nel segreto della terra di nessuno fra la bocca e la cassa: i pensieri di Nedo, il quale non si è mai allontanato dalla cassa per più di cinque minuti negli ultimi settanta anni.
L’autore dei pensieri è un vecchio con la faccia di Lucifero e l’espressione di chi non pensava che cadere dai propri sogni sarebbe stato un esercizio così noioso da diventare un poema.
All’ingresso di un cambogiano obeso che parla un italiano mesto e dice:
Sono solo
,
il demone risponde:
Si vede, con codesta faccia, con chi tu volevi essere?
Mentre il tavolo solitario lì accanto pensa che certe lingue hanno bisogno del porto d’armi anche quando gli hanno avvitato alla nascita un silenziatore.
Bimba Impertinente ha scoperto il cassetto segreto del portatile in cui raccolgo queste note.
Le ha scoperte con l’entusiasmo di uno studioso per una glossa al XXX canto del paradiso nascosta nelle pieghe della copertina di un libro da messa barocco.
Le ha lette con gli occhi golosi e il sorriso aperto da bambina che gioca ancora con le bambole e sa leggere un libro di fiabe.
Babbo, sono bellissime…
È il suo unico commento.
La guardo e, improvvisamente, capisco il suicidio di Salgari.
Emilio Salgari sapeva scrivere storie con l’inchiostro dei sogni e aveva visto la giungla creata da dio in un tempo in cui gli uomini avevano il cuore puro dei pirati di Mompracem.
Salgari aveva avuto il dono di raccontare tutto questo con la luce dei diorami in una epoca nella quale una candela illuminava la fantasia più di un cinema a tre dimensioni.
Ma uno così senza il sorriso di una figlia che lo legge è davvero solo e, ora, in questa sua terribile solitudine, capisco le ragioni del suo lasciarsi cadere nell’oceano di un vaporetto.
La verità è un suono perché se non si crede in nulla, si sa che la differenza fra ciò che è vero e ciò che non lo è una questione di ritmo e di armonie.
La richiesta di dimissioni per il sindaco 5 Stelle di Livorno è irrimediabilmente stonata.
Nogarin, di cui si può dire molto e si è detto anche troppo, non ha il phisique du role né del corrotto né del bancarottiere.
Ma non ce lo avevano neppure Sindona o Calvi.
La questione è molto complessa per chi non ha chiara la differenza fra un lingotti d’oro e un sacchetto della nettezza urbana.
L’azienda dei rifiuti di Livorno non fa utili. Non li ha mai fatti e probabilmente non li farà mai perché l’incenerimento del cacciucco consuma più energia di quanta non ne produce.
Era così con Cosimi e Lamberti, sindaci di centro sinistra.
È rimasto così con Nogarin.
Non è colpa dei primi e nemmeno del secondo. È colpa di un sistema nel quale la valorizzazione dei rifiuti brucia risorse e i benefici per le fonti rinnovabili premiano l’industria energivora.
Di conseguenza, l’avviso di garanzia per i due sindaci di Livorno, quello di adesso è quello passato, è uno scortese atto bipartisan.
Dà, però, fastidio il rumore e la richiesta di dimissioni per il sindaco di adesso che non può avere colpa anche perché una bancarotta non si fa in due anni.
Dà noia anche perché segue da molto vicino l’entusiasmo per l’assoluzione di Graziano Cioni, che non sarebbe in alcun responsabile per avere caldeggiato il recupero urbanistico di un vasto comparto alle porte di Firenze.
Sicuramente le due cose non sono collegate, ma ho la sensazione che se Nogarin telefona a Ligresti perché gli mandi un antennista rimane senza televisione. A Cioni, invece, pare andasse in un modo assai diverso.
Il punto, forse, è l’inadeguatezza del processo penale per la selezione della classe politica.
Per me, un politico che si fa mandare l’idraulico da un immobiliarista è decisamente fuori dal mondo in cui vorrei vivere con i miei figli.
Un sindaco che non riesce a fare i soldi con i rifiuti è in linea con le dure leggi della fisica.
Ma l’onestà intellettuale è un bene che non si ricicla.
Caro Dario,
Mi dispiace scriverti dal pronto soccorso e tramite un giornale invece che per mail o per SMS come si conviene a due amici.
Lo faccio perché sono un pò arrabbiato.
Sono arrabbiato con me stesso.
Passo tutti i giorni da piazza San Marco e non mi capita spesso di cadere.
Oggi sono cascato.
Come un cretino.
Sono cascato perché una buca ha afferato la mia ruota anteriore e mi ha portato in terra come un annegato della Medusa.
Adesso ho la testa rotta, un dito quasi troncato e un’unghia rimasta fra pietra e pietra.
Ho rotto il cellulare, storto la forca a una bici che amo eccetera.
Soprattutto, però, ho dovuto guardare mia figlia Livia, che era con me, piangere e disperarsi perché ero un lago di sangue legato ad un’ambulanza.
Questa settimana sono stato il secondo, mi ha detto il funzionario del Rettorato che con molta compassione mi ha raccolto ed aiutato.
Cosa c’entra il sindaco con le buche?
Non lo so.
Ma so che adesso sono contento che sono caduto io e non Livia, ma so che Livia non vuole più salire in bicicletta perché se sono cascato io, allora secondo lei, puó cadere chiunque.
Ed è vero, in Piazza San Marco, così come è può cadere anche un ciclista professionista dei mondiali che con tanto orgoglio hai organizzato.
Ecco, Dario, non è questo il mondo che vogliamo, il mondo di cui tu ed io abbiamo anche parlato tante volte.
Noi non vogliamo un mondo in cui la pigrizia delle strade impedisce di andare in bicicletta.
E tu, anche su questo, puoi fare qualcosa perché se cade un babbo poco male, si rialza, ma se quando cade lo vede suo figlio è un problema.
Un abbraccio con l’affetto e la consuetudine di sempre.
È grande.
È grande per la geometria e l’algebra, per il francese e l’inglese. Sa di epica come un libro parlante e disegna come il fumo della china.
È grande per tutto questo perché capisce, pensa ed è capace di pensiero astratto.
Ma basta il richiamo della sorella che in un’altra stanza gioca con le bambole perché urli Arrivo e corra con tutto il suo fiato per appoggiare la testa nei suoi sogni bambini e riprenderli esattamente dove li aveva lasciati.
Vorrei che fosse sempre così. Grande perché sa tornare piccola.
Qualsiasi cosa purché resti sempre così.
Sono morti i tramonti e ci sono soli che hanno la dignità del suicidio quando il vivere sarebbe memoria, altri che hanno la bellezza di un giovane acheo che cerca la gloria, altri la pesantezza di un vecchio che non vuole accettare la serenità della cera che spegne la fiamma, e così ancora.
Non questo.
Questo odora di spasmi e cacca, ha il sapore di metallo delle trincee, il muso terrore della morte giovane quando si accorge, denti spezzati e ginocchia piegate, della propria inevitabile e assoluta inutilità